L’atteggiamento di Dante nei confronti dei re e dei prìncipi francesi è complesso. Fondamentalmente è un atteggiamento negativo, determinato dalle incidenze che la politica dei re capetingi e della loro prosecuzione angioina ebbero nella vicenda del Comune di Firenze e nelle sofferenze politiche del poeta; ma i suoi giudizi si dilatano anche ad altri aspetti di quei governi sovrani. Tuttavia un breve episodio nella vita di Dante squarciò quel velo cupo e avrebbe trovato eco nel Paradiso (Par. VIII), offrendo l’occasione per uno dei due ampi excursus sulladinastia che aveva avuto origine dal re Ugo Capeto (il quale era stato nominato in Pg. XX e aveva dato luogo all’altro excursus sui Capetingi).
L’episodio lieto fu la visita che fece a Firenze nel marzo del 1293 Carlo Martello d’Angiò, primogenito di Carlo II d’Angiò re di Sicilia e di Napoli, nipote del re di Francia Luigi VIII. Fra Dante che si avvicinava ai trent’anni e Carlo Martello che era poco più che ventenne si strinse una improvvisa e forte amicizia. Destinato alla corona di Ungheria, Carlo Martello morì nel 1295, e questo consentì a Dante di incontrarlo nel suo viaggio ultraterreno, il cui inizio come sappiamo è immaginato nel 1300. L’incontro avvenne nel terzo cielo del Paradiso, il cielo di Venere (Par. VIII). Carlo Martello ricorda la brevità della sua vita (“il mondo m’ebbe / giù poco tempo”, vv. 49-50) e dice che tale morte prematura fu cagione di molti mali; poi ricorda come fosse stato amato da Dante, come lo avesse amato a sua volta, e come la morte gli avesse impedito di mostrare al poeta qualcosa di più delle “fronde”, cioè di una manifestazione di affetto esterna e incoativa (vv. 55-57).
Giunto a questo punto del discorso, Carlo Martello evoca le disavventure politiche che, per colpa di un cattivo governo, avevano afflitto la sua dinastia al tempo presente, cioè tra l’ultima generazione del Duecento e gli inizi del Trecento, e tuttora la minacciavano. Si tratta dunque di un riferimento tutto contemporaneo, mentre la vicenda precedente della dinastia di Carlo Martello era stata percorsa in un canto del Purgatorio, il XX, sul quale conviene adesso fermarci.
Il narratore era qui il capostipite ed eponimo della dinastia capetingia, Ugo Capeto (re dal 987 al 996), che si era immediatamente proposto a Dante come “radice de la mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia” (vv. 43-44). Dopo avere dichiarato a Dante la propria origina plebea (sarebbe stato figlio di un macellaio, che sappiamo leggenda del tutto falsa), Ugo spiega come, dopo una serie di suoi discendenti diretti di poco valore ma anche poco dannosi, l’ombra che avrebbe oscurato tutta la “terra cristiana” aveva iniziato ad addensarsi con il ramo angioino, precisamente con Carlo I d’Angiò, figlio del re Luigi VIII e fratello di Luigi IX e astuto procacciatore della contea di Provenza grazie al matrimonio con la figlia di Raimondo Berengario IV.
La monarchia francese, prosegue Ugo Capeto, avrebbe proseguito nell’estensione del suo dominio annettendo la contea di Ponthieu, la Normandia e la Guascogna. Questo è l’ordine seguito dal re nella sua narrazione, ed è un ordine che non corrisponde a quella che fu l’effettiva cronologia delle annessioni, come viene qui ovviamente ignorata la reale struttura politica di quelle regioni, cioè il mosaico feudale che le costituiva e il tipo di vincolo che ne unì i signori alla corona francese, e sono ignorate anche le interferenze con la sovranità dei re inglesi, una questione originata nel secolo XI e destinata allo sviluppo in quella che si dirà la guerra dei cento anni (ca. 1300-ca. 1450). Si tratta di silenzi poetici (la poesia non è storia), come c’è silenzio su quello che era stato un precedente importante nell’estensione della monarchia di Francia, cioè la crociata del 1208 contro gli Albigesi, un fatto che Dante conosceva ma che rievoca in maniera assai vaga a proposito di san Domenico (Par. XII, vv. 97-102), e c’è silenzio sul regno di Filippo Augusto (1179-1223) e il suo ruolo capitale nello sviluppo del potere monarchico francese e delle sue conquiste territoriali.
Il fatto è che il culmine emotivo della requisitoria antiangioina e anticapetingia che Dante pronunzia attraverso la voce di Ugo Capeto è nelle imprese francesi in Italia: la discesa di Carlo I d’Angiò e il suo ruolo nefasto nella vita politica della Toscana, complice la volontà di egemonia politica del papa Bonifacio VIII, e particolarmente in Firenze, con l’appoggio della Parte Nera dei Guelfi; sciagurato anche il figlio, Carlo II, che per cupidigia vendette nel 1305 la figlia al marchese di Ferrara; infine Filippo il Bello, autore del revirement nel rapporto con papa Bonifacio VIII, mortalmente offeso ad Anagni, e artefice dell’elezione del simoniaco Clemente V e della traslazione della Sede Apostolica ad Avignone, nonché del crudele assalto al patrimonio dei Templari.
Non era stata una marcia trionfale. Nelle sue parole in Purgatorio Ugo Capeto prevede la sollevazione delle Fiandre e la sconfitta di Courtrai del 1302; ma sarà Carlo Martello a evocare il maggiore arresto dell’egemonia e delle ambizioni imperiali angioine, cioè la rivolta palermitana del Vespro nel 1282. Sappiamo che l’esito della rivolta fu la scissione del grande regno, che i Normanni avevano forgiato nel Mezzogiorno tra XI e XII secolo e che Carlo d’Angiò aveva acquisito con la forza delle armi negli anni Sessanta del Duecento, in due parti: la Sicilia, conquistata dai sovrani aragonesi, e Napoli, rimasta angioina. Dopo avere attribuito al malgoverno angioino la perdita della Sicilia, Dante esprime però in luoghi diversi un giudizio negativo sull’evoluzione di ambedue le corone, e in un medesimo verso del Paradiso (Par. XX v. 63) accosterà Federico II d’Aragona re di Sicilia e Carlo II d’Angiò re di Napoli. Negativo sarà il giudizio anche sul figlio ed erede di Carlo II, re Roberto d’Angiò: viene accolto nella Commedia (Par. VIII v. 147) lo stereotipo di un re letterato, adatto ai sermoni e non alla milizia e dunque debole nel governo sugli uomini.
Angioini e Aragonesi non sono bersagli isolati della disistima del poeta. Sotto questo aspetto gli Angioini primeggiano, date non solo la nefasta influenza nelle cose italiane ma il pessimo esito delle loro ambizioni imperialistiche: sull’Ungheria, sulla Navarra, su Cipro. Ma il dettato del diciannovesimo canto del Paradiso che contiene tali giudizi negativi include anche i sovrani di Inghilterra e di Scozia, di Castiglia e di Maiorca, del Portogallo, della Norvegia, senza dimenticare la Serbia. È una geografia politica “nera”, di realtà che sicuramente non erano tutte ben conosciute da Dante, come qualche commentatore moderno ha giustamente suggerito. Fu isolato dal poeta qualche dettaglio, come la falsificazione della moneta veneziana operata da Stefano Uros II Milutinus, re della Serbia occidentale, oppure la lussuria o l’avarizia di qualcuno, per dilatare il dettaglio verso una generale condanna.
Non ha però molto senso, qui come altrove, fermarsi sulle lacune delle conoscenze di Dante. Sarebbe più interessante comprendere perché nel suo atteggiamento verso uno dei re francesi da lui più esecrati, Filippo il Bello (1286-1314), non sia stato però inserito con chiarezza il merito del conflitto che oppose il sovrano a papa Bonifacio VIII e che suscitò una vasta letteratura dottrinale. Nella sostanza Dante condivideva le opinioni di Filippo il Bello e dei suoi sostenitori quanto alla ripulsa della pretesa papale all’esercizio dei poteri giurisdizionali. Ma la modalità violenta dell’azione contro il papa e la sfrenata avidità di denaro mostrata nell’affaire dei Templari fecero passare in secondo ordine agli occhi di Dante le buone ragioni del grande re francese.
Nota. La migliore esposizione dell’atteggiamento di Dante verso la corona francese è stata offerta da Girolamo Arnaldi, La maledizione del sangue e la virtù delle stelle. Angioini e Capetingi nella “Commedia” di Dante, in “La Cultura”, XXX/1, aprile 1992, pp. 47-74 e XXXX/2, agosto 1992, pp. 185-216. Sui Capetingi un prezioso volume di insieme, ricco di apparati, carte, approfondimenti prosopografici e tematici, è: François Menant, Hervé Martin, Bernard Merdrignac, Monique Chauvin, Les Capétiens. Histoire et dictionnaire, 987-1328, Paris, Robert Laffont, 1999 (Bouquins. Collection dirigée par Guy Schoeller).
Autore: Paolo Cammarosano
Nell’immagine: Arnolfo di Cambio, Monumento a Carlo d’Angiò (Roma, Musei Capitolini)