[pubblicato in Studi e memorie per Lovanio Rossi, a c. di Curzio BASTIANONI, Firenze, Edizioni Polistampa, 2011 (Biblioteca della “Miscellanea storica della Valdelsa” dir. da Sergio GENSINI, 24), pp. 181-187]
La battaglia del 4 settembre 1260 che si sarebbe detta di Montaperti ebbe un eccezionale riflesso documentario, come gli studiosi sanno, in alcuni quaderni al cui complesso sarebbe stato attribuito in età moderna il nome di Libro di Montaperti, edito nel 1889 da Cesare Paoli e riproposto cinque anni fa in ristampa anastatica.[1] Sono scritture di natura deliberativa e procedurale, in ordine all’organizzazione dell’esercito e alla logistica della sfortunata impresa. Contengono una serie importante di indicazioni di luoghi, tra i quali figurano castelli, chiese e villaggi della Valdelsa, e ovviamente Colle, alleata a quel tempo dei Fiorentini guelfi che a Montaperti sarebbero stati sconfitti. Non risulta una diretta partecipazione armata delle cittadine valdelsane, ma certo una loro funzione di base degli accampamenti fiorentini e dunque di luoghi dai quali venivano emanati provvedimenti e ordini, ciò che per Colle è attestato in alcuni giorni del mese di aprile.[2] Copiosissima è la serie dei nomi di comandanti e di partecipanti all’azione militare, come si può intuire. Ed anche si può intuire come, in scritture relative a procedimenti normativi e a fatti militari, non compaiano se non nomi di maschi, a parte qualche eccezionalissimo caso di matronimico. Meno ovvio il fatto che siano relativamente rare le qualificazioni di mestiere di quanti parteciparono all’impresa, che convogliò certamente un numero di artigiani cittadini molto superiore ai circa centottanta nominati nel Libro con tale qualificazione. Naturalmente, mentre l’assenza di nomi di donne è originaria e strutturale, quella delle indicazioni di mestieri è casuale e non indicativa, dal momento che per gli estensori delle registrazioni poteva apparire sufficiente il nome di battesimo, ancor più se accompagnato da un patronimico. I mestieri nominati con maggiore frequenza sono quelli dei calzolai e dei fabbri, con diciotto e sedici occorrenze rispettivamente; seguono medici, barbieri, fornai, tavernieri e tintori, ciascuna categoria rappresentata da otto o nove persone, mentre mestieri anche importanti si vedono nominati poche volte, in certi casi, come quello del maniscalco, una volta soltanto, e due soli sono i fiorentini qualificati come pittori (“dipintore”).
Uno dei due è persona da gran tempo conosciuta. Si tratta di “Coppus dipintore”, da identificare senza troppe incertezze con Coppo di Marcovaldo, autore della celebre tavola che effigia la Madonna e il Bambino Gesù, Madonna che si sarebbe detta “del bordone” e si trova a Siena nella chiesa di Santa Maria dei Servi. Una ipotesi è che Coppo l’avesse dipinta per pagarsi il riscatto, o si può anche pensare che avesse potuto alleviare, impegnandosi all’opera, la sua situazione di prigionia. Nell’aureola della Madonna, stampigliate discretamente e percepibili solo con molta attenzione visiva, erano le aquile imperiali.[3]
La sconfitta subìta dai Fiorentini e dallo schieramento guelfo a Montaperti avrebbe avuto un contraccolpo immediato, con una egemonia ghibellina in Toscana e nelle cittadine della Valdelsa, compresa Colle, e avrebbe comportato un altrettanto tempestivo sforzo di riorganizzazione nel campo guelfo, con un intervento molto incisivo della Curia romana che è molto ben conosciuto nelle sue fasi e nella sua dinamica.[4] Sappiamo anche del carattere trasversale del conflitto guelfo-ghibellino, cioè della divisione interna di clan familiari e di organismi politici nelle città e nelle cittadine di Toscana, e sappiamo dei diversi modi nei quali venne vissuta e affrontata una lacerazione così destabilizzante per l’ordine civile.
In questi anni di lacerazioni, un pittore della ghibellina Poggibonsi, Tommasone, ebbe nell’agosto del 1261, e poi ancora nel maggio del 1263, l’incarico da parte del Comune di San Gimignano di dipingere le armi imperiali sui pavesi dell’esercito.[5] Qualche anno più tardi il colligiano Arnolfo di Cambio, formatosi nella bottega di Nicola Pisano, dunque in una città imperiale, lavorò nella imperiale e ghibellina Siena al pulpito della chiesa cattedrale di Santa Maria. Era ancora all’opera nell’estate dell’anno 1267, come risulta da alcune attestazioni di pagamento da gran tempo note agli studiosi.[6] In quei giorni si era da poco realizzato il mutamento dei rapporti di forza in Valdelsa, dove mentre Poggibonsi si era collocata risolutamente nel campo antifiorentino e imperiale, tanto da subire il lungo assedio dell’esercito di Carlo d’Angiò, San Gimignano e Colle avevano accettato nel maggio la subordinazione a re Carlo e l’inserimento nella compagine guelfa. A Colle era podestà un capofila dei guelfi fuorusciti di Siena, Arrigolo Accarigi, che avrebbe per due anni governato la cittadina. Così nel 1268 Colle era abbastanza saldamente assicurata all’“asse” fiorentino-guelfo, mentre la situazione di San Gimignano era meno salda, per la reiterata politica interna di quel Comune tesa a cercare un modus vivendi tra le due partes, e Poggibonsi rientrava violentemente e decisamente nello schieramento imperiale e ghibellino, pisano e senese. Furono questi i preludi dell’assedio senese a Colle nell’estate del 1269 e dello scontro armato che ebbe luogo presso la cittadina il 17 giugno e si risolse con una sconfitta del campo imperiale. Sconfitta non del tutto risolutiva, come al solito: Poggibonsi sarebbe rimasta per oltre un anno un caposaldo ghibellino, e solo l’anno 1270 avrebbe veduto il realizzarsi di un solido predominio angioino in Toscana.[7]
A differenza dallo scontro culminato a Montaperti, la battaglia di Colle non ha avuto il portato documentario di un “Libro”. Ad essa sono in compenso legate alcune figure femminili, una delle quali di duratura memoria nella poesia e per questo di grandissima rilevanza sino ai tempi nostri. Mentre la rievocazione di Montaperti sarebbe stata legata da Dante a una imponente figura virile, il capo ghibellino Farinata degli Uberti, alla battaglia di Colle il poeta ricondusse la memoria di una donna a nome Sapìa, relegata nel Purgatorio tra gli invidiosi perché avrebbe gioito della sconfitta dei suoi concittadini. Ampia è stata la letteratura sul personaggio, anche con contributi di dettaglio.[8] Personalmente, ritengo che Dante abbia reso conto in quell’episodio di un conflitto interno alle famiglie, tale da condurre la guelfa Sapìa a gioire della sconfitta dei ghibellini senesi al cui sangue pure apparteneva. Sapìa rappresenta il prevalere dell’“invidia” di parte sul senso della propria appartenenza familiare e cittadina, al modo che Farinata rappresenta la situazione opposta, il primato dell’amore del cittadino per la sua patria sopra il sentimento di parte. Vero che Farinata è all’Inferno mentre Sapìa è in Purgatorio, ma la dannazione del grande ghibellino non ha a che fare con la vicenda guelfo-ghibellina, nella quale il suo animo appare grande, mentre la donna è condannata più mitemente, ma proprio per quel venire meno del sentimento di appartenenza civica dietro un puro e peccaminoso impulso di invidia.
Sconosciute ai più sono ovviamente altre donne di cui resta memoria nei giorni della battaglia di Colle. Il ricordo dei loro nomi è affidato non a magnifici versi ma ad un modesto, ordinario registro di pagamenti del Comune di San Gimignano, la cittadina dalla quale ci è giunta per il secondo Duecento la documentazione di gran lunga più cospicua di tutta la Valdelsa. Fu il grande Robert Davidsohn a esaltare l’importanza complessiva dei testi sangimignanesi, utilizzandoli amplissimamente nella Storia di Firenze e dedicando ad essi un intero libro delle Forschungen.[9] Non gli sfuggì l’elenco di spie, in gran parte donne, inviate dal Comune di San Gimignano al tempo della battaglia di Colle, e dedicò anzi alla materia dello spionaggio (Spionenwesen) una apposita sezioncina delle Forschungen.[10] Il fatto che il testo del documento fosse in lingua volgare avrebbe poi assicurato ad esso, a molta distanza di tempo dopo il Davidsohn che ne aveva data parziale e un poco difettosa edizione, l’attenzione erudita e l’ineccepibile edizione di Arrigo Castellani.[11]
Il testo non è datato, ma il riferimento al podestà Arnolfo lo riconduce senza dubbio al 1269, e collima del resto con l’evidente riferimento alla situazione della battaglia. Un pagamento venne fatto a una donna, Agnese, “che andoe per ispia nel Campo a Spungna quando v’erano e’ Sanesi”. Questo riconduce ad azioni di informazione promosse prima del 17 giugno, e a pagamenti effettuati poco dopo lo scontro. Il compito di spionaggio, come si è appena letto nella citazione, è indicato con chiarezza ed è prevalente, anche se a volte non si legge motivazione di pagamento e a volte si parla di una “guardia”. Anche in tal caso è chiaro, dalla località e dalla presenza indifferenziata di uomini e di donne, che si trattava di un lavoro di osservazione e di informazione, non di un servizio di guardia armata. Si può semmai operare una distinzione tra un lavoro francamente di spionaggio, come è quello affidato a chi si recava nelle sedi forti del ghibellinismo, Pisa, Siena e Poggibonsi, e un lavoro di osservazione (“guardia”) che poteva essere svolto anche a una qualche distanza, come è quello degli inviati a due “poggi” (“Poggio al Colle” e Poggio Petronci).
Quarantasei sono le poste di pagamento, per un ammontare complessivo di un poco più di cinque lire.[12] La registrazione contempla il nome della persona remunerata, il tipo di servizio richiesto e il luogo di svolgimento, la somma versata dal camerario del Comune di San Gimignano e, quasi sempre, la durata del lavoro svolto. Si tratta per lo più di uno o due giorni, il pagamento è commisurato essenzialmente a tale durata e corrisponde mediamente a un soldo o un soldo e mezzo o un soldo e un terzo per giorno. Si legge di una sola corresponsione minima di mezzo soldo (sei denari) e di una eccezionale somma di venti soldi (una lira) a certo Talozzo che fu mandato come spia a Pisa. Ma non si dice quanti giorni egli vi stette, mentre una donna, a nome Ricca, inviata per spionaggio nell’altra capitale imperiale e ghibellina, Siena, vi stette quattro giorni e ricevette cinque soldi, dunque secondo il consueto parametro di poco più di un soldo al giorno. I due casi di missione a Pisa e a Siena sono unici, le altre missioni ebbero per teatro anzitutto la ghibellina Poggibonsi (diciotto missioni), un uomo andò nel giro di due giorni a Poggibonsi e all’avamposto senese di Monteriggioni, una donna andò a Monteriggioni “quando venneno ini e’ Sanesi”, un’altra si mosse due volte, per due giorni ogni volta, tra Poggibonsi, Monteriggioni e Staggia. Frequenti furono le missioni al “Poggio al Colle”, dunque un poco a nord-ovest di Colle, frequenti e quasi tutte affidate a un uomo a nome Ventura quelle in un Poggio Petronci che non so identificare.
Sia maschi che femmine svolsero dunque il pericoloso incarico, e alcuni lo svolsero per più di una volta. La palma spetta a una donna, a nome Buona, che fu assoldata per nove missioni, in prevalenza a Poggibonsi e della durata di un giorno, più raramente due. Questo è l’unico dato sulla durata complessiva delle operazioni di informazione, che dobbiamo pensare dunque distese nell’arco di due o tre settimane. Quanto a “donna Buona”, essa mise insieme con il suo lavoro di spia quindici soldi, con una remunerazione media giornaliera di un soldo e tre denari (soldi 1,25). Se, per assurda ipotesi, avesse lavorato ogni giorno con quel salario avrebbe guadagnato in un anno una ventina di lire. Noi non faremo conversioni in lire-oro come usava un tempo, diremo che 20 lire poteva essere nella Valdelsa del 1269 il valore di mercato di una casa di modesta qualità. Ma l’ipotesi, l’abbiamo già detto, è assurda, l’attività di rischiosa informazione aveva un ovvio carattere di occasionalità e straordinarietà, ed era certamente ambita proprio perché consentiva un raro e buon guadagno, certo superiore all’ordinaria media degli ordinari lavori. Ma inferiore, ad esempio, al salario medio dei maestri dell’opera di Santa Maria fra il 1267 e il 1270, assestato sui due soldi e mezzo al giorno. Un grande artista come Nicola Pisano riuscì invece a spuntare per il pulpito di Santa Maria un compenso di otto soldi giornalieri, ottenendone sei per i suoi discepoli, tra i quali Arnolfo.[13]
Nella frequenza delle missioni affidate, Buona è seguita da un uomo, quel Ventura che abbiamo già ricordato, pagato otto volte per altrettante missioni tutte a Poggio Petronci (anche Buona si era recata lì una volta). Seguono un uomo, Tuccio Montanini, e una donna designata come moglie di tale Manetto, ambedue con cinque occorrenze. Non dettaglieremo oltre. Diremo che le presenze femminili furono maggiori, sia come numero di persone ingaggiate (quattordici donne a fronte di cinque uomini) sia se si considerano le poste di pagamento (trentuno su quarantasei).
Noi però non insisteremo su questa prevalenza femminile, per due motivi. Anzitutto non sarà banale rimarcare come, a differenza dagli uomini, le donne non siano sempre designate con il proprio nome di battesimo, ma talora solo in funzione di una parentela maschile: “la mogl<i>e Manetti”, “la mogl<i>e Michegli Ugolini”, “la serocchia di Scalabrone”, “la mamma di Bono”. La situazione di subalternità sociale che ben conosciamo si riflette anche in questa semplice evidenza. Né tenteremo un “recupero” nel senso di evidenziare specificità e specialità femminili in lavori particolari, come, nel caso che ho brevemente esaminato, il pericoloso lavoro delle ricerca di informazione in campo nemico. E non faremo questo perché oscurerebbe il dato di fondo del lavoro femminile, cioè la sostanziale prossimità ed eguaglianza con gli uomini dal punto di vista non della remunerazione, né del ruolo sociale, ma da quello della fatica e del rischio. Le donne facevano le spie allo stesso modo che portavano acqua, come la madre di Cola di Rienzo, e allo stesso modo che lavoravano nei campi o ai telai. Quando vi era una occorrenza eccezionale, come nel caso delle “spie”, il loro lavoro era pagato su base giornaliera senza sostanziale differenza rispetto ai maschi. Nei lavori ordinari e più massificati avrebbero avuto per secoli una remunerazione inferiore a parità di tempo di lavoro.
Paolo Cammarosano
[1] Cesare PAOLI, Il Libro di Montaperti (1889), a c. e presentazione di Carlo FABBRI, Firenze, FirenzeLibri, 2004 (Memorie italiane, Studi e testi, dir. Giovanni CHERUBINI, Giuliano PINTO, Andrea ZORZI, 1). Per l’ampia bibliografia sulla battaglia si vedrà La Sconfitta di Monte Aperto. Una cronaca e un cantare trecenteschi, a c. di Luigi SPAGNOLO, Siena, Università per Stranieri di Siena, Betti Editrice, 2004 (Scuola senese, dir. da Pietro TRIFONE, V).
[2] C. PAOLI, Il Libro di Montaperti cit., pp.68-69, 71. Per la situazione di Colle in questi anni, e tutto il contesto, devo rinviare all’imminente mio lavoro Storia di Colle di Val d’Elsa nel Medioevo, 2: Dcolle nell’età di Arnolfo di Cambio, Trieste, CERM, 2008 (Studi, 06).
[3] La partecipazione di Coppo all’esercito fiorentino sconfitto a Montaperti è sicura: è nominato nel Libro di Montaperti, p.25. Sull’artista si vedrà la voce di Miklós BOSKOVITS, Coppo di Marcovaldo, in Dizionario biografico degli Italiani, XXVIII, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Treccani, 1983, pp.631-636, e più recentemente Siena, Florence and Padua. Art, Society and Religion 1280-1400, I: Interpretative Essays, ed. by Diana NORMAN, New Haven and London, Yale University Press in association with the Open University, 1995 (Plate 50 a p.56), e, con particolare attenzione alla simbologia imperiale, Max SEIDEL, La “seconda Lucca”, in Max SEIDEL, Romano SILVA, Potere delle immagini, immagini del potere. Lucca città imperiale: iconografia politica, Venezia, Marsilio, 2007 (Collana del Kunsthistorisches Institut in Florenz – MaxPlanck-Institut, dir. da Alessandro NOVA e Gerhard WOLF, XII), pp.159-196, in particolare p.176 e Fig.176 a p.181. L’altro “dipintore” del Libro di Montaperti è un “Megliore” (p.22, non 32 come erroneamente nell’Indice onomastico), del quale nulla so.
[4] Contributi importanti, e riferimenti a tutta la bibliografia, nel recente Fedeltà ghibellina, affari guelfi. Saggi e riletture intorno alla storia di Siena fra Due e Trecento, a c. di Gabriella PICCINNI, Ospedaletto (Pisa), Pacini Editore, 2008 (Dentro il medioevo. Temi e ricerche di storia economica e sociale. Collana del Dipartimento di Storia dell’Università di Siena, dir. da Giovanni CHERUBINI, Franco FRANCESCHI e Gabriella PICCINNI, 3).
[5] Cfr. Robert DAVIDSOHN, Forschungen zur älteren Geschichte von Florenz (citazione completa qui oltre, nota , 9), II, nn. 808a, p. 113, e 2350, p.310.
[6] Vedi qui oltre, nota 13.
[7] Devo rinviare ancora al mio libro su Colle che ho menzionato qui sopra, nota 2, ma voglio ricordare il saggio di Curzio BASTIANONI, La battaglia di Colle (17 giugno 1269), a c. del Comune di Colle Val d’Elsa, 1970.
[8] Interessante ad esempio il lavoro appena citato di C. BASTIANONI, La battaglia di Colle; per il resto rinvierei alla voce scritta da Giorgio VARANINI, Sapia, in Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana diretta da Giovanni Treccani, V, 1976, pp.25-27.
[9] Robert DAVIDSOHN, Geschichte von Florenz, 4 voll. (in 7 tomi), Berlin, 1896-1927; ed.it.: Storia di Firenze, 8 tomi, Firenze, Sansoni, 1972-1973 (Superbiblioteca Sansoni); ID., Robert DAVIDSOHN, Forschungen zur älteren Geschichte von Florenz, 4 voll., Berlin, 1896-1908 [Erster Theil, 1896; Zweiter Theil: Aus den Stadtbüchern und –Urkunden von San Gimignano (13. und 14. Jahrhundert), 1900; Dritter Theil: (13. und 14. Jahrhundert). I. Regesten unedirter Urkunden zur Geschichte von Handel, Gewerbe und Zunftwesen. II. Die Schwarzen und die Weissen, 1901; Vierter Theil: 13. und 14. Jahrhundert, 1908].
[10] R. DAVIDSOHN, Forschungen cit., n.2425 alle pp.321-322; cfr. anche ivi, n.1100, p.157.
[11] Testi sangimignanesi del secolo XIII e della prima metà del secolo XIV con Introduzione, glossario e indici onomastici a c. di Arrigo CASTELLANI, Firenze, Sansoni, 1966 (Autori classici e documenti di lungua pubblicati dall’Accademia della Crusca), pp.65-69, poi, con leggere correzioni (tra cui due che “femminilizzano” due persone, con l’opzione per una “a” finale in luogo di “o”), in Arrigo CASTELLANI, La prosa italiana delle origini, I: Testi toscani di carattere pratico, I: Trascrizioni; II: Facsimili, 2 voll., Bologna, Pàtron, 1982, I, n.46, pp.421-425. In questa nuova edizione manca il glossario, che era invece nei Testi sangimignanesi.
[12] Come spesso accade, c’è una piccola discrepanza tra la “Summa” dichiarata in fine del testo e quella che risulta se facciamo noi i conti delle singole somme versate. A me risulterebbero non 5 lire, 4 soldi e 6 denari ma 5l 5s 1d. Non potendo pensare a errori di trascrizione del Castellani, si penserà a un errore del registratore medievale, o magari mio. Comunque è poca cosa. Sia l’occasione per ricordare il sistema contabile del tempo: 1 l(ira) = 1 s(oldo), 1 s(oldo) = 12 d(enari), dunque 1 lira = 240 denari. Così ad esempio nei testi non si dice “un soldo e mezzo”, ma “un soldo e sei denari”.
[13] Andrea GIORGI, Stefano MOSCADELLI, Costruire una cattedrale. L’Opera di Santa Maria di Siena tra XII e XIV secolo, München, Deutscher Kunstverlag, 2005 (Italienische Forschungen hrsg. vom Kunsthistorischen Institut in Florenz, Max-Planck-Institut, Sonderreiche: Die Kirchen von Siena, hrsg. Peter Anselm RIEDL u. Max SEIDEL, Beiheft 3), Tabella IV a p.329. Il contratto stipulato nel 1265 tra l’operarius di Santa Maria di Siena e Nicola Pisano, e alcune attestazioni di pagamento del 1267, furono editi da Enzo CARLI, Il pulpito di Siena. Con 100 tavole in rotocalco ed una tavola grafica, Bergamo-Milano-Roma, Istituto italiano d’arti grafiche, 1943, pp.41-48.