di Greta Valente
Il cristianesimo venne riconosciuto giuridicamente già nel 313 con il celebre “Editto di Milano” di Costantino, ma è dopo l’editto di Tessalonica, emanato nel 380 da Teodosio, che si pone con maggiore urgenza il problema di come rappresentare le storie sacre della nuova religione.
Se nel periodo Costantiniano si era cercato di adattare forme e modelli classici all’iconografia cristiana, ora la cesura è netta: il cristianesimo è l’unica religione legittima dell’impero, praticarne una diversa è reato nei confronti dello stato, e quindi essa deve distanziarsi il più possibile dal cosiddetto “paganesimo” anche a livello artistico. Questo è uno dei motivi per cui la scultura viene parzialmente abbandonata in favore dell’affresco e del mosaico, su imitazione dell’Oriente.
Si temeva che l’esporre statue nelle basiliche ricordasse ai neo-convertiti le antiche pratiche; inoltre nella Bibbia si condannano molto fermamente gli idoli dei pagani.
Tuttavia rinunciare completamente alla rappresentazione di Dio, di Cristo o dei santi martiri pareva altrettanto svantaggioso, infatti molte le ritenevano utili per mantenere vivo il ricordo della storia sacra. Questo punto di vista venne adottato soprattutto nella parte Occidentale dell’impero, dove nel VI secolo Gregorio Magno ricordò a tutti i nemici delle immagini che molti cristiani non sapevano né leggere né scrivere, e che quindi esse erano una parte importante del processo di indottrinamento ed essenziali per rendere a tutti comprensibili i messaggi delle Scritture ed i dogmi della fede cristiana. Ciò, assieme alla caduta dell’Impero romano d’Occidente, a lungo andare portò alla perdita di molti traguardi raggiunti dalla pittura e scultura classica nel campo della raffigurazione del corpo, che ambiva ad essere il più naturale e realistica possibile. Ora le raffigurazioni dovevano essere pregnanti ed essenziali il che aiutò molto la diffusione del mosaico, tecnica artistica per sua natura adatta a questo scopo. Non era necessario che le membra delle figure fossero anatomicamente corrette ed armoniche tra loro ma che il gesto, la storia dietro all’immagine, fosse immediatamente riconoscibile e comprensibile.
Con l’arrivo delle nuove popolazioni d’oltralpe, e con la loro conversione al cristianesimo niceano, i modelli orientali diventano sempre più preponderanti: un popolo come quello dei longobardi non aveva modelli preesistenti per rappresentare, ad esempio, Cristo, così assorbe e rielabora in maniera originale quelli bizantini. Considerando proprio l’immagine di Cristo pian piano si affermerà l’uso dell’oro per rappresentarne la divinità, la mandorla come simbolo di mediazione tra la sfera divina e quella umana, il gesto “benedicente” con pollice ed anulare uniti mentre l’altra mano sorregge la Bibbia. Spesso tali attributi sono rappresentati contemporaneamente per creare l’immagine del “Cristo pantocratore”, signore di tutte le cose, oppure quella del Cristo in “maestà”, assiso su di un trono.
La situazione dell’Impero Romano d’Oriente è altrettanto complessa, in particolare dal VI secolo in poi. In quel periodo si diffuse il fenomeno del culto delle icone, ovvero di immagini raffiguranti Cristo, Maria oppure dei santi dipinte su tavola. La venerazione derivava dalla credenza che esse possedessero un carisma sacro in grado di compiere miracoli e guarigioni; spesso erano ritenute “acheròpite”, ovvero “non fatte da mano umana” ma grazie ad un intervento divino. Erano ritenute immutabili, il che portò ad una loro fossilizzazione da punto di vista stilistico: l’autore o autrice dell’icona possedeva un determinato repertorio di modelli da cui non poteva distanziarsi.
Questo concezione sacra dell’immagine divina si acuì in particolare dopo la definitiva conclusione della crisi iconoclasta nell’843. Da un lato il “conservatorismo” che ne derivava aiutò a mantenere alcune conquiste dell’arte greca nel campo del drappeggio e del chiaroscuro, dall’altro non permise mai all’iconografia religiosa orientale di svilupparsi in maniera libera. Tutt’ora, specie nell’ambito delle chiese ortodosse greche e slave, le icone seguono i modelli che un tempo usarono anche gli artisti bizantini.
A questo punto la strada si biforca, e ciò diverrà sempre più palese con il passare del tempo: ad Oriente delle immagini solenni, maestose e sempre più astratte, ad Occidente una coesistenza di modelli diversi che punta ad una rappresentazione più varia della figura divina. Non a caso nel XIII secolo si svilupperà una nuova tematica nell’ambito della decorazione dei crocifissi lignei: oltre alla classica immagine del Cristo trionfante sulla morte, detto Cristo triumphans, si diffonderà la rappresentazione del Cristo patiens, ovvero sofferente, piegato dal dolore della crocifissione e raffigurato nella sua sofferenza come un uomo mortale.
Questo encausto, tecnica pittorica in cui i colori vengono sciolti nelle cera calda e poi stesi, è un esempio di come doveva essere l’immagine di Cristo nel mondo bizantino prima dell’iconoclastia e delle sue conseguenze. E’ un’opera con intenti ritrattistici, come a voler alludere alla doppia natura del soggetto rappresentato: il ritratto è quello di un uomo, ma l’aureola sottolinea subito il suo carattere divino. E’ già presente uno dei modelli che avranno più fortuna nella storia dell’arte cristiana: la mano destra benedicente e quella sinistra che regge la Bibbia nel complesso formano il topos iconografico del “Cristo benedicente”.
Coeva è la realizzazione dei mosaici della basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, che percorrono i due lati della navata centrale esaltandone l’architettura. In origine rappresentavano la corte di Teodorico in processione, ma nel 561 il vescovo Agnello li distrusse per sostituirli con altri due mosaici rappresentanti la processione delle sante vergini offerenti guidate dai magi ed il corteo dei martiri, lasciò però intatte le parti preesistenti che raffiguravano il palazzo imperiale a Ravenna, il porto di Classe, Cristo e la Vergine in trono.
Nei mosaici bizantini l’abbandono della tridimensionalità e l’assenza di sfondo anticipano la futura svolta verso l’astrazione a scapito della rappresentazione naturalistica. Ovviamente il processo è graduale, ed in questo dettaglio con Cristo possiamo ancora vedere un qualche intento di rappresentare realisticamente un volto umano osservando la perizia con cui le tessere del mosaico sono state disposte.
Coevo all’encausto citato in precedenza è il mosaico raffigurante la Trasfigurazione, di cui qui sopra è riportato un dettaglio. L’opera, situata sull’abside della basilica del monastero, presenta un altro simbolo frequentemente associato all’immagine di Cristo: la mandorla o “vescica di pesce” (termine tradotto letteralmente dal latino vesica piscis). La mandorla è una forma ogivale ottenuta intersecando due cerchi con il medesimo raggio ed era già conosciuta e variamente interpretata prima di divenire un’allegoria cristiana.
In questo ambito diventa un simbolo di gloria e maestà. Nella “Trasfigurazione” in particolare le tre fasce diverse tra loro all’interno della mandorla alludono alla trinità.
Attorno alla figura di Cristo sono disposti Elia e Mosè assieme agli apostoli Giovanni, Giacomo e Pietro. La fascia che circonda la scena è composta da trentuno medaglioni con i volti di profeti, apostoli ed evangelisti, oltre ai due committenti Longino e Teodoro.
Nel momento in cui questo patrimonio di simboli viene assimilato dalle popolazioni recentemente insediatesi sulla penisola, esso viene rielaborato in maniera originale e coerente con la cultura e tradizione artistica nei nuovi arrivati.
L’altare Ratchis, di epoca longobarda, è un esempio di questo processo. In esso coesistono i simboli iconografici già incontrati, la mandorla ed il gesto benedicente, con elementi tipici dell’arte germanica. La rappresentazione bidimensionale è caratterizzata da un estremo linearismo riconducibile a lavori di oreficeria, campo in cui i longobardi eccellevano, tanto più che originariamente la pietra era colorata e decorata con paste vitree. Le figure volutamente non rispettano l’anatomia: la deformazione è necessaria per far risaltare l’espressività dei gesti e sottolineare l’importanza gerarchica della figura di Cristo.
Ogni spazio vuoto è stato riempito con figure o motivi decorativi floreali, secondo la tipica tendenza germanica all’horror vacui, l’”orrore del vuoto”.
Con l’ascesa al potere dei Franchi, ed in particolare della dinastia Carolingia, si ha un’incredibile potenziamento delle scuole scrittorie e quindi una sempre maggiore perizia nell’arte della miniatura; tutto ciò nel complesso di quel periodo di rilancio della cultura europea, in relativa continuità con l’Impero romano, denominato rinascita carolingia.
Proprio durante il regno di Carlo Magno venne realizzato all’abbazia di Lorsch, in Germania, il Codex Aureus o Codice di Lorsch, manoscritto illustrato dei quattro vangeli sinottici. Era protetto da due placche d’avorio scolpite a bassorilievo con temi imperiali rivisitati in chiave cristiana.
In questa pagina del Codex Aureus Cristo è ritratto “in maestà”, ovvero assiso sul trono, mentre benedice con la mano destra e con la sinistra regge la Bibbia. E’ attorniato dai simboli dei quattro evangelisti: Matteo l’uomo alato, assimilabile ad un angelo, Giovanni l’aquila, Marco e Luca rispettivamente un leone ed un bue anch’essi alati.
Il livello della decorazione e della qualità del colore è altissimo. La porpora è simbolo di regalità e potere, mentre il blu è legato all’aspetto divino e celeste di Cristo.
C’è tuttavia un particolare che ricollega la miniatura di Lorsch, realizzata tra il 780 e l’820, al Cristo in gloria scolpito sull’altare del Duca di Ratchis a Cividale: entrambi raffigurano Gesù come un uomo giovane e sbarbato, a differenza dell’iconografia più diffusa, specie nel mondo orientale, che lo raffigura con la barba ed i capelli lunghi: immagine che poi diventerà quella canonica e quasi universalmente accettata.
Il Codex Aureus è interamente visibile online al seguente indirizzo: http://www.bibnat.ro/expozitie-virtuala/Codex-Aureus-c1-ro.htm
Accanto al nuovo stile promosso dalla corte carolingia permane l’influenza bizantina, specie nel centro-sud Italia. Una riprova sono gli affreschi del IX secolo della chiesa di S. Cecilia in Trastevere, a Roma.
Il richiamo agli affreschi ben più noti di Ravenna è molto forte: le figure disposte su un’unica fascia, l’uso dell’oro per simboleggiare la luce e lo sfarzo, l’assenza di chiaroscuro bilanciata dalle forti righe di contorno. Il mosaico rappresenta un Cristo benedicente assieme ai Santi mentre riceve dal vescovo il modello della basilica. La donna riccamente abbigliata a destra probabilmente è Santa Cecilia stessa.
Data la grande presenza a Roma di artisti bizantini, emigrati in Occidente per sfuggire alla crisi iconoclasta, si puo’ anche presumere che sia stata proprio una bottega di artisti orientali a realizzare i mosaici.
Se ad Occidente si ha una notevole sperimentazione di tecniche e linguaggi artistici, pur mantenendo alcuni simboli chiave costanti, ad Oriente dopo la cristi iconoclasta si ha una sempre maggiore astrazione della figura di Cristo ed i modelli per rappresentarlo diminuiscono.
Le icone diventano sempre più qualcosa di sacro che dev’essere mantenuto immutabile, da qui il fissarsi di alcuni modelli prestabiliti da seguire, pena il rischio di cadere nell’eresia.
Tuttavia ciò non ha impedito di raggiungere livelli di eccellenza dal punto di vista tecnico in vari campi. I mosaici della basilica di Santa Sofia, realizzati a partire dal IX secolo dopo una breve fase aniconica con motivi geometrici e floreali, sono un esempio di maestria non solo artistica ma anche architettonica.
Quella che forse è la caratteristica più singolare di Santa Sofia è l’illuminazione, fornita soprattutto da quaranta grandi finestre alla base della cupola principale, senza contare quelle presenti sull’abside e sulle base e murature che sostengono la cupola stessa. L’effetto è di grande impatto poiché i raggi di luce sembrano annullare lo spazio architettonico, dando l’impressione che la cupola sia staccata dai suoi sostegni. Effetto che in origine doveva essere aumentato dal mosaico che la ornava. Essa è divisa in altre grandi semicupole e semicupole minori; struttura che vuole alludere all’armonia delle sfere celesti, immagine con cui spesso si rappresentava il divino.
La luce fa parte dello stesso progetto: essa disorienta il visitatore, amplifica ed innalza gli spazi non permettendo di cogliere a fondo la struttura dell’edificio.
Si percepisce una sensazione di mistero, non a caso la cattedrale voleva illustrare il dono della Sapienza Divina (Haghia Sophia in greco) che irradia il mondo ed in primo luogo l’imperatore stesso.
A rendere l’atmosfera ancora più suggestiva e sovrannaturale contribuiva il largo uso dell’oro nei mosaici, colore della divinità e della luce.
Osservare in ordine cronologico i mosaici dà anche un’idea del progredire dell’arte bizantina. Se dal IX al X secolo i mosaici hanno ancora una certa bidimensionalità nelle forme e astrazione nei volti, caratterizzati da linee nette e mancanza o quasi di chiaroscuro, con il XII e XIII secolo ricompaiono modelli classici: i volti, con dei delicati chiaroscuri, ambiscono nuovamente ad essere dei ritratti, le pose morbide sebbene i panneggi e gli abiti mantengano una linea di contorno netta e dal segno quasi grafico.
In conclusione, se da un lato l’Oriente ha posto dei limiti notevoli alla creatività nell’ambito delle icone, dall’altro ha conservato alcuni modelli e traguardi raggiunti dall’arte classica ed ellenistica che periodicamente vengono ripresi e rielaborati. L’Occidente, nel momento in cui ha dovuto reinventare se stesso, si è servito di molte immagini e simboli provenienti dall’Impero d’Oriente; tuttavia tali idee sono sempre state rielaborate in maniera coerente con la cultura, il contesto e le esigenze specifiche dei neonati regni romano barbarici prima e del Sacro Romano Impero poi.