Non c’è molto da elucubrare sulla motivazione reale e il significato reale della condanna inflitta a Dante e agli altri tre cittadini il 27 gennaio del 1302. Il testo non parla di illecite appropriazioni di denaro a semplice fine di lucro, e le dice intese a manipolare le elezioni dei futuri organi di governo e dei futuri ufficiali e a più generali scopi politici: per contrastare il papa e impedire la venuta in Firenze di Carlo di Valois, “paciaro in Toscana”, per impedire il pacifico stato di Firenze, per creare una divisione politica a Pistoia e farne espellere i Neri, fedeli devoti di Santa Romana Chiesa, e per allontanare Pistoia da Firenze e dunque dalla sottomissione a alla Santa Romana Chiesa e Carlo. Poco più di un mese dopo, cioè il 10 marzo del 1302, continuando la situazione di contumacia dei condannati, essi furono colpiti dal bando: se fossero venuti in potere del Comune di Firenze sarebbero stati mandati al rogo. Adesso la condanna era estesa ad altre undici persone oltre ai condannati del gennaio. Non si sa molto di queste persone, ad eccezione di uno, Lapo Salterelli, che Dante ricorderà in maniera molto poco lusinghiera nel canto di Cacciaguida (Par. XV).
Circa due settimane dopo avere subito questa condanna Dante, un altro dei condannati e quindici esponenti di nobili famiglie fiorentine (Cerchi, Ricasoli, Ubertini, Uberti) si impegnarono a risarcire con i propri beni i danni e le spese che avrebbero sostenuto gli Ubertini, signori del Mugello, nella loro lotta contro il Comune di Firenze per il possesso dello strategico castello di Montaccianico. Questa aperta ricerca di un appoggio politico esterno, con una dinastia che era da sempre in conflitto con Firenze per il controllo della fascia settentrionale del territorio, segnava un punto di non ritorno nel contrasto fra Dante e il suo Comune. Nell’estate del 1305 devastazioni erano compiute sui beni di Dante e del fratello Francesco. L’anno seguente il Comune fiorentino chiudeva la partita per il castello di Montaccianico, espugnandolo e distruggendolo. Questo sforzo militare implicò delle spese che furono finanziate in parte con una imposta a carico di alcuni fiorentini dichiarati ghibellini, non pertanto incarcerati od espulsi: esempio di una pur difficile convivenza delle due parti, cosa che molti Comuni toscani cercarono di perseguire nell’ottica di un ordine pubblico interno comunque da mantenere. Tra i “ghibellini” tassati era un cugino di Dante, Cione di Brunetto Alighieri. Era un artigiano della lana, di media condizione economica, oberato nel tempo da alcuni debiti oltre che dalla tassa (peraltro non immensa) per la guerra di Montaccianico, e sarebbe sopravvissuto di almeno due anni al cugino poeta.
Non solo poeta. Fu probabilmente in questi primi anni di esilio, fra il 1304 e il 1307, che Dante compose il geniale trattatello De vulgari eloquentia e un ampio testo in volgare, composito di poesie e prosa e comprensivo di argomenti letterari, filosofici e morali, il Convivio. E fu probabilmente verso la fine di questo primo periodo di esilio che iniziò la composizione dell’Inferno, la prima delle tre cantiche della Commedia. Nel frattempo aveva trovato un sostegno prima presso il signore di Forlì, Scarpetta degli Ordelaffi, poi presso una grande casata nobiliare della Liguria, i marchesi Malaspina, e da questi signori assumeva incarichi di natura diplomatica. In particolare, nel 1306, un membro dei Malaspina lo nominò procuratore per concludere una pacificazione con il vescovo di Luni. Questa vita di alta dimestichezza con grandi famiglie di signori proseguì con gli Scaligeri a Verona, e personaggi delle dinastie con le quali era venuto in contatto sarebbero stati variamente rievocati nella Commedia. Dante era adesso un personaggio di grande spicco e rinomanza, e la sua cultura letteraria, in particolare nell’arte di scrivere lettere (l’ars dictandi che si era affermata dal secolo XII e aveva avuto un esponente maggiore in Brunetto Latini, che Dante ricorderà come suo maestro), lo accreditava quale corrispondente tra i signori e persone eminenti e quale nobile ambasciatore.
Nel frattempo eventi molto importanti si erano verificati in Europa. La solidarietà tra il papato e il regno di Francia si era infranta per lo scontro tra il re Filippo il Bello e papa Bonifacio VIII. Costui soccombette, morì tristemente nel 1305 e la successione, pilotata dalla monarchia francese e da molti alti dignitari ecclesiastici e dottori che avevano sostenuto il re nella controversia giurisdizionale e teorica con la Chiesa di Roma, implicò lo spostamento della sede papale ad Avignone, destinato a durare per settanta anni. Era un aspetto inedito di una pratica di itineranza della Sede Apostolica che era peraltro nella consuetudine, anche se normalmente si realizzava in residenze non lontane da Roma (Anagni, Sutri, Viterbo ecc.). Dante avrebbe collocato nell’inferno sia Bonifacio VIII sia il suo secondo successore Clemente V, primo papa avignonese, tacciandoli di simonia. Dopo la morte di Clemente V (1314) avrebbe indirizzato una lettera ai cardinali italiani, perorando un ritorno della Sede Apostolica a Roma (Epistola XI). Dante era stato sempre ostile alla politica di papa Bonifacio VIII e alla sua ideologia teocratica, cioè all’idea che i papi fossero i successori dell’autorità imperiale romana in Occidente. Era una idea fondata su un falso del secolo VIII, la cosiddetta “donazione di Costantino”. Dante non ne negava l’autenticità, ma contestava l’uso che ne era stato fatto dai papi per rivendicare un potere politico che spettava solo a Cesare, cioè all’imperatore (Inf. XIX e Par. XX, e il trattato Monarchia).
Ancora prima della morte di Clemente V altri eventi avevano scosso la situazione politica. Nel maggio del 1308 era stato assassinato l’imperatore Alberto d’Austria, nel quale moti ghibellini avevano riposto le loro speranze (sarà oggetto dell’invettiva di Dante in Pg. VI). Dopo un breve interregno fu eletto re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero Enrico VII. Nell’ottobre del 1310 egli varcò le Alpi per dirigersi su Roma e ottenere qui l’incoronazione. Grande fu l’emotività suscitata e grandi le speranze, soprattutto nel composito movimento ghibellino, di un rinnovamento della giustizia contro le prevaricazioni signorili e angioine e le destabilizzanti lotte tra le fazioni cittadine.
Tutto ciò spiega bene come, quando nel 1311 si adombrò a Firenze una riammissione in città di coloro che erano stati colpiti dalle sentenze del 1302, Dante, con i suoi precedenti antipapali e il suo atteggiamento filo-imperiale (fu grande ammiratore di Enrico VII: Par. XXX e Epistole V, VI e VII), ne venisse escluso. Sembra che negli anni immediatamente seguenti le autorità fiorentine cercassero un compromesso, ma Dante era ormai in una situazione di forza morale e politica che gli consentiva di non accettare patteggiamenti. Aveva l’appoggio dei signori scaligeri di Verona, prima Bartolommeo e poi Cangrande, ambedue collocati nel Paradiso della Commedia (Par. XVII), e in Verona si era stabilito, muovendosì però sovente verso altre città, e aveva atteso ad un trattato politico, la Monarchia. E nello stesso tempo andava portando verso compimento la Commedia.
La morte improvvisa di Enrico VII il 24 agosto del 1313 non arrestò lo sviluppo del movimento ghibellino. Gli anni Dieci del Trecento videro anzi una vigorosa ripresa del ghibellinismo, sotto la guida del signore di Milano Matteo Visconti e di suo figlio Galeazzo e con il favore del re di Sicilia Federico d’Aragona, avversario di Roberto d’Angiò che era adesso re di Napoli. In Toscana un valoroso capitano militare, Uguccione della Faggiola, inflisse ai Fiorentini e allo schieramento guelfo una sconfitta militare a Montecatini (29 marzo 1315). A questa disfatta guelfa seguì, come da copione, una breve fase segnata da tentativi di pacificazione, ad ampio raggio: tra Asburgo, Angioini e Aragonesi e in Toscana, promossa dal re di Napoli Roberto d’Angiò, tra guelfi e ghibellini.
Svoltasi tra l’estate del 1316 e la primavera del 1317, questa politica pacificatoria implicò in alcune città provvedimenti di amnistia e riammissione degli sbanditi. Non risulta che Dante ne sia stato beneficiato, è abbastanza sicuro che egli rifiutò compromessi e comunque era oramai lontano dalla politica di Toscana. Le vicende di questi anni di ripresa ghibellina e di tensioni pacificatorie ai più alti livelli non avrebbero trovato molta eco nella Commedia, nella composizione della quale lo sappiamo da molto tempo impegnato. La sede principale di Dante era Verona, dove egli dedicò a Cangrande della Scala, che nel 1318 stato istituito capo della Lega Ghibellina, una epistola nella quale disse del poema (Epistola XIII), e dove nel 1320 tenne una lezione pubblica sulla questione De aqua et terra.
In questo secondo decennio del Trecento Dante aveva proseguito una vita di peregrinazioni, spostandosi variamente dalla Verona scaligera e approdando ad altre città e altre protezioni signorili, segnatamente i da Polenta signori di Ravenna, la città dove probabilmente portò a compimento la terza ed ultima cantica della Commedia, il Paradiso. Dal signore di Ravenna Dante venne incaricato di una nuova missione di ambasciatore, questa volta a Venezia, ed è possibile che rientrando da questa ambasciata si sia ammalato e sia venuto a morte, a Ravenna, il 13 o 14 settembre del 1321. Nel 1329 sarebbe morto Cangrande. Nello stesso anno la vedova di Dante, Gemma, che non lo aveva seguito nell’esilio, si vide riconosciuti in parte alcuni redditi che derivavano dai suoi diritti dotali. Sarebbe morta nel 1343. Il figlio di Dante, Pietro, aveva nel frattempo seguito una buona carriera, era giudice e piuttosto facoltoso, come testimonieranno diversi anni più tardi le sue volontà testamentarie.
Riassumendo: Dante trascorse la maggior parte della sua vita, cioè trentasette anni, nella sua patria, e venti anni nell’esilio, durante il quale creò la grande maggioranza delle opere, lavorando sino a poco tempo prima che lo cogliesse la morte. Lavorò in contemporanea alla Commedia, componendo una dopo l’altra le tre cantiche, e alle altre sue opere. Molti studiosi hanno cercato di fornire una datazione alla stesura dei suoi lavori, datazione che è ovviamente piuttosto sicura per le Epistole, più problematica per tutto il resto e in modo particolare per la Commedia, che fu un work in progress.
Autore: Paolo Cammarosano