In un bellissimo e molto utile saggio del 1985 Fiorella Simoni, acuta e coltissima medievista precocemente scomparsa, inserì la Commedia nella tradizione letteraria dell’Ubi sunt? Illustrò l’antichità del tema e la sua presenza in culture diverse (ebraica, greco-romana, altre più distanti da noi), spiegò le sue valenze, anch’esse diverse, dal semplice compianto elegiaco e nostalgico all’inserimento nell’idea della caducità delle cose umane (il contemptus mundi) e chiarì genialmente come il poema di Dante rappresentasse una risposta totalmente inedita alla domanda ubi sunt? Dante sapeva benissimo dove era andato a finire ciascuno, da Aristotele a Traiano a Farinata degli Uberti, e a ciascuno assegnò il suo posto nell’inferno, nel limbo, nel purgatorio, nel paradiso.
Il tema del compianto delle persone del passato e della fragilità della carne si integrava, e si integrò in maniera molto intensa in Dante, al tema del rimpianto per epoche migliori della presente. Anche questo è un tema ricorrente nel medioevo: si pensi, una generazione dopo Dante, a Cola di Rienzo che si aggirava per Roma chiedendo: “Dove soco (= sono) questi buoni Romani? Dove ène loro summa iustizia?”. Così nella Commedia il contrasto tra un “buon tempo antico” e le nequizie del presente ricorre in più luoghi, soprattutto negli incontri di Dante con l’antenato Cacciaguida (Par. XV-XVI) e con il nobile romagnolo Guido del Duca (Pg. XIV).
Dei due episodi il primo è il più esteso e certamente il meglio conosciuto, con la sua rievocazione di una Firenze chiusa nell’antica cerchia di mura e connotata da grande sobrietà di costumi negli uomini e nelle donne. Le mogli non erano abbandonate per i viaggi mercantili dei mariti in Francia, le fanciulle non erano date in moglie anzitempo e con doti eccessive, quanti ricoprivano uffici pubblici lo facevano con assoluta integrità. A questa descrizione, trentatre versi (97-129) qui massacrati dalla mia prosa, Cacciaguida fa seguire un momento autobiografico (nascita, fratelli, moglie, cavalierato, morte nella crociata)(vv. 130-148), con il quale si chiude il canto. Il canto successivo si apre con una importante parentesi di considerazioni sulla nobiltà, tema sul quale tornerò in una di queste brevi letture, quindi prosegue con una ripresa sulla vicenda di Firenze, adesso non più ricondotta al generale elogio del buon tempo antico ma concretata molto storicamente: nella valutazione dell’incremento della popolazione, quintuplicata dal tempo di Cacciaguida al tempo di Dante, e alimentata dalla commistione con nuovi cittadini provenienti dal contado, laddove la Firenze di Cacciaguida era “pura” anche nei più modesti strati urbani. Su questa nuova sanzione della decadenza fiorentina si innesta di nuovo il tema della caducità delle cose umane, una caducità clamorosa nel venir meno delle stirpi e delle città. Poi Cacciaguida elenca una irta schiera di personaggi e famiglie variamente tralignati o scomparsi e il canto magistralmente si conclude con l’accenno alla sanguinosa discorda civile dei tempi di Dante.
I due canti di Cacciaguida sono così anche un esempio della tecnica poetico-narrativa di Dante, con andirivieni di introduzioni, temporanei arresti, parentesi, sospensioni, riprese: una tecnica che rifulge in maniera particolare nel canto di Farinata degli Uberti, del quale dirò a suo tempo, ma che è presente in numerosi luoghi del poema. Questa diversità di stili narrativi si manifesta anche nella diversa articolazione di spazi e di tempi che presenta l’episodio romagnolo (Pg. XIV) rispetto al canto di Cacciaguida. Pendant signorile e cavalleresco del buon tempo antico cittadino descritto da Cacciaguida, comprensivo anch’esso di elogio di tempi passati e deplorazione del tempo presente, il canto che vede interlocutore di Dante il nobile Guido del Duca si iscrive in uno spazio che non è lo spazio cittadino tra cittadine mura bensì una ricca articolazione di piccole e grandi città e castelli, ai quali fanno capo dinastie aristocratiche. Anche la struttura narrativa è diversa. Non è un antico cittadino che rievoca un passato ma la condanna è espressa in parte dal personaggio rievocato, Guido del Duca, e in parte da Dante stesso. Inoltre quel personaggio è un dannato, per il peccato di invidia, come lo sono altri a lui vicini. Ma soprattutto non si tratta qui di una decadenza morale cittadina bensì della decadenza di una aristocrazia già ispirata da “amore e cortesia” e poi declinata verso una generale malvagità dei cuori. Il passato buono non era concretato in una generalità di buoni costumi ma nel valore morale di singoli individui, così da suggerire la ripresa della formula classica dell’“ubi sunt?”: “Ov’è il buon Lizio e Arrigo Manardi?”.
Ambedue i canti, con il loro riferimento a personaggi, luoghi e vicende, ma soprattutto, come nel canto di Cacciaguida, al complessivo svolgimento di una società, si prestano ad una contestualizzazione propriamente storica. Operazione legittima, perché la Commedia è anzitutto, come sempre, testimonianza di se stessa, cioè dell’atteggiamento di un esponente della piccola aristocrazia fiorentina di fronte al mutare dei tempi, ma è anche una fonte storica. È una operazione che demando alla prossima puntata.
Autore: Paolo Cammarosano
Nota. Come ho detto nel brevissimo commento sul canto di Ulisse (Inf. XXVI) apparso nel sito del CERM, questi interventi, minuscolo omaggio a Dante nell’approssimarsi del centenario della morte, saranno privi di note e riferimenti bibliografici. Ma qui devo fare ovviamente eccezione per il saggio che ho citato in apertura: Fiorella Simoni, Sull’uso della formula retorica Ubi Sunt in Pg XIV, 97-98: un momento propositivo di un modello culturale cavalleresco-cortese, in “La Cultura”, Anno XXIII, n. 2, 1985, pp.276-303.