di Paolo Cammarosano
Dante Alighieri pensava ai settanta anni come orizzonte normale di una vita umana. Ma non ne aveva ancora compiuti sessanta quando venne a morte, a Ravenna, alla metà di settembre del 1321. Era nato a Firenze nel 1265 e trascorse in questa sua patria la maggior parte della vita, cioè trentasette anni. Aveva nove anni quando si innamorò di una coetanea a nome Beatrice, ne aveva circa dodici quando il padre, come era consuetudine, combinò il suo matrimonio, scegliendo per lui una donna della consorteria nobiliare dei Donati, Gemma di Manetto. Niente di anormale in tutto ciò, la divaricazione tra amore e matrimonio era cosa consolidata e accettata da secoli.
Dante era già una persona molto colta e uno squisito poeta quando Beatrice prematuramente morì (1290). Egli scrisse allora nel giro di tre anni una sorta di autobiografia, la Vita nuova, in volgare, che includeva ricordi fattuali, ricordi di sogni intensi, momenti visionari e allegorie e un discorso letterario sugli esordi della poesia in volgare. Firenze viveva adesso giorni drammatici, per l’acutizzarsi del conflitto sociale tra nobili e non nobili e tra famiglie di grande potenza che alcuni capi politici della città vollero contenere limitandone l’accesso agli uffici. Queste misure non toccarono Dante, che nobile non era e che poté occupare cariche pubbliche anche importanti, come il Priorato, organo di governo, e partecipare ai Consigli cittadini.
La situazione interna di Firenze, già tesa per atavici odi tra le famiglie, si complicò e aggravò con la lotta politica tra Chiesa e Impero, Guelfi e Ghibellini e scissioni interne al campo guelfo. Molto duri furono i conflitti in questa che era la più popolosa e ricca città di Toscana, e che vide il pesante intervento del Papato, retto adesso dall’ambizioso Bonifacio VIII, e del regno di Francia dominato dalla casata degli Angiò. Dante avversò la politica di Bonifacio VIII e dei sovrani francesi e avrebbe poi sempre condannato una ingerenza papale nella vita civile che rappresentava ai suoi occhi una disobbedienza al precetto divino di dare a Cesare ciò che è di Cesare. Il suo atteggiamento gli valse l’ostilità del clan dominante in Firenze, il partito dei Guelfi che si dissero Neri, e una condanna all’esilio nel gennaio del 1302.
Iniziò per lui una vita movimentata, a lungo sorretta dal desiderio di rientrare in Firenze e che in un primo tempo comportò la partecipazione ad alcuni tentativi armati, con l’appoggio di consorterie aristocratiche nemiche della città. Ma nel giro di pochi anni Dante abbandonò questa strada e si spostò tra una città e l’altra, in città comunali e presso corti signorili, lungo un paesaggio politico che era segnato dall’endemica lotta per il potere tra città e città e tra una dinastia aristocratica e l’altra e anche all’interno delle une e delle altre. Dante avrebbe deplorato la situazione dell’“aiuola che ci fa tanto feroci”, non esprimendo mai un giudizio sulle diverse forme di governo, democratico o signorile o oligarchico che fosse. Suo ideale era l’Impero, che tutti avrebbe sovrastato e a tutti avrebbe assicurato il sommo bene politico, la “giustizia”. Ma l’Impero ebbe in questo primo Trecento vita assai tormentata, e un evento improvviso, la morte dell’imperatore Enrico VII nel 1313 e l’estrema problematicità della sua successione, significò per Dante una immensa disillusione e anche una presa di distanza da uno schieramento imperiale, ghibellino, che aveva in Italia suoi esponenti di grande valore politico e militare, in nessuno dei quali però egli si volle riconoscere, se non in parte per il signore di Verona Cangrande della Scala, il quale aveva comunque avuto un riconoscimento imperiale. Ma nemmeno questa adesione fu stabile, in una situazione italiana sempre più complessa ed incerta.
In tale situazione si era svolta, in ogni regione d’Italia, una eccezionale fecondità culturale. Decine di opere di poesia, di grammatica e di retorica, di ars dictandi e ars notaria, di narrazione storica e narrazione agiografica, di filosofia e teologia, di scienza medica e chirurgica, di scienza agronomica, di diritto civile e canonico furono prodotte quando Dante era ancora operoso. Egli si impegnò in numerosi di questi campi: attese a un geniale trattato latino sulla lingua italiana, il De vulgari eloquentia, poi ad un’opera composita di poesie e di prosa e comprensiva di argomenti letterari, filosofici e morali, il Convivio, che descrisse come opera “temperata” e “virile”, laddove la Vita Nuova era stata un’opera “fervida e passionata”. Ma non recò a termine nessuno di questi due lavori. Si era sempre più dedicato ad un testo poetico di grandissimo impegno, la Commedia, al quale aveva lungamente pensato e che concluse entro il primo ventennio del Trecento.
Da tanto tempo la letteratura occidentale si era posto il problema dell’“Ubi sunt?”, dove erano finite tante persone della storia? Dante diede risposte certe e puntuali, collocando in inferno, in purgatorio o nel paradiso molte decine di persone, nella grande maggioranza a lui vicine nel tempo e talvolta ancora viventi, nel qual caso dovette profetizzarne la morte e il giudizio divino.
A questo capolavoro per la cui grandezza non ci sono parole altri scritti di Dante devono essere aggiunti: poesie ed epistole e soprattutto il trattato politico Monarchia dove espresse la sua ideologia imperiale.
Nel clima culturale di cui ho detto egli si impegnò anche in campo scientifico, interessandosi ad astronomia e astrologia, e lavorò intorno ad una questione scientifica sino a poco tempo prima che lo cogliesse la morte. Di alcune di queste cose ho parlato a più riprese nel sito del CERM e tutte verranno riprese e integrate in un libro che sto preparando per i tipi del CERM e che uscirà prima della prossima estate.
Nell’immagine: “Miniatore senese, L’incontro di Dante con Virgilio (particolare), Perugia, Biblioteca Augusta, tratta da B. Pasquinelli, Il gesto e l’espressione, Dizionari dell’Arte Electa, Milano 2005 (collana a cura di S. Zuffi), p. 16.