Con la metà del Duecento entriamo in un periodo del quale Dante ebbe conoscenza per una tradizione orale molto vicina a lui e infine, nell’ultima generazione del secolo, per esperienza personale diretta. Visse infatti in questo periodo la gran parte dei personaggi nominati nella Commedia, come dirò in un capitolo successivo. Si capisce che Dante non poté cogliere alcuni mutamenti di fondo della situazione economica e sociale, i quali del resto fino a poco tempo fa sono rimasti piuttosto mal compresi anche dagli storici moderni, per non dire dei “dantisti”. Cercherò di spiegarli, come al solito, nel modo più semplice.
Dalla fine degli anni Trenta del secolo il conflitto tra Impero e Chiesa, tra Ghibellini e Guelfi, divenne sempre più acuto, gli scontri più sanguinosi. Questo significò un ruolo crescente del ceto militare, dei cavalieri, principali protagonisti delle battaglie: fu un fenomeno europeo, destinato a durare sino alla fine del medioevo, anche dopo che le armi di combattimento di lunga gittata, archi e balestre, e dal Trecento le armi da fuoco, ebbero assunto un peso importante. Crebbe la spesa militare e crebbe la sua incidenza nelle finanze pubbliche. I cavalieri sfuggirono a lungo all’onere fiscale per la guerra, accampando la loro diretta partecipazione alle imprese militari, le armi furono a lungo esentate dalle imposte, ma i costi della guerra furono comunque alti, e sempre più problematica la loro ripartizione fra i residenti.
Contemporanea alla crescita di importanza delle aristocrazie militari fu la crescita economica e sociale della gente che, per riprendere l’espressione di Par. XVI citata nel capitolo precedente, “cambia e merca”. Non si trattò di una crescita economica generalizzata, complessiva, diffusa in ogni segmento della popolazione. Almeno dagli anni Trenta si ebbe su un piano globale, in ogni luogo d’Europa, un rallentamento e una tendenza alla stagnazione. Su questa tendenza generale si innestò così una complessità sociale e una divaricazione tra le classi che fu più acuta di prima. Al ruolo mai dismesso della milizia aristocratica fece da contrappunto la crescita degli elementi non aristocratici. Alcuni di questi giunsero talora a superare per patrimonio e reddito la media delle classi aristocratiche. In grande misura questo avvenne perché la rendita derivata dal commercio e soprattutto dall’attività finanziaria era superiore alla rendita agraria. La rendita finanziaria poi riceveva impulso dalle necessità degli Stati di fronteggiare il deficit, originato dalla crescente spesa militare, attraverso il debito pubblico: clienti e creditori dello Stato furono anzitutto quanti avevano la possibilità di prestare ad esso denaro. In parte erano prestiti obbligatori, comunque portatori di un interesse, nell’ordine del 5% (il “sette e cinque per diece” che Dante illustrò come esempio di una buona remunerazione, sia pure in diverso contesto, in Par. VI, v. 138), e in linea di principio da rimborsare, in parte gli Stati dovevano cercare il denaro sul mercato, a tassi di mercato ben più elevati del 5%.
La questione fiscale ispirò da parte del “popolo”, costituito da commercianti, prestatori e artigiani, una contestazione dell’esenzione fiscale dei cavalieri e una istanza per sistemi fiscali più equamente redistributivi. Venne anche crescendo una insofferenza per le attitudini di violenza insite nell’aristocrazia militare: privilegio e prepotenza apparvero radice di ingiustizia e di ostacolo della pace sociale. Così i ceti mercantili e artigiani che già dalla fine del secolo XII avevano molto peso nei Consigli comunali si orientarono, partendo dalle formazioni di societates e artes del primo Duecento, verso la costituzione di un organismo di più larga e inclusiva dimensione che si disse Popolo. Fenomeno comune a molte città comunali, esso ebbe a Firenze una decisiva affermazione istituzionale nel 1250.
Il Popolo non si identificò con uno dei due schieramenti in lotta, Ghibellini e Guelfi, né vide una estraneità degli elementi aristocratici. A Firenze come in altre città la guida del Popolo, che rivendicava ruoli di giustizia e di potere anche militare, venne necessariamente assunta da personaggi nobili, di prestigio, atti all’esercizio della giustizia e alla guerra. Ciò ha suscitato in passato sconcerto e perplessità, fra quanti non hanno compreso come nella storia non vi sia stata sempre e necessariamente una coincidenza tra egemonia economica e sociale ed egemonia politica, ma si sia dato sovente il caso di elementi della società che non perseguivano il proprio immediato interesse ma preferivano costruire un vivibile e non lacerato ordine pubblico, entro il quale avrebbero comunque esercitato un ruolo egemone. Ci torneremo. Chiarendo però che la partecipazione di elementi aristocratici all’organismo del Popolo non significò certo l’azzeramento di un conflitto tra milites e populares che con diverse declinazioni nel tempo sarebbe persistito.
Sullo sfondo di questo quadro che era già complesso di per sé ed era reso ancor più complesso dall’interferenza e dalla complicazione tra il conflitto interno alle città e il conflitto ghibellino-guelfo si innestò la nervosa vicenda degli anni Cinquanta e Sessanta del Duecento. Essa si sdipanò dalla morte di Federico II nel 1250, che suscitò sgomento nel campo ghibellino ma non ne arrestò lo sviluppo, guidato dai successori del grande imperatore, alla clamorosa e sanguinosissima sconfitta guelfa a Montaperti ad opera degli eserciti della ghibellina Siena, dei ghibellini che erano stati scacciati da Firenze e dei militari imperiali (1260), alla veloce riscossa di una Parte Guelfa adesso ben strutturata grazie a intelligenti iniziative economiche papali e all’ambizioso intervento di Carlo d’Angiò, ai disastri imperiali e ghibellini della fine degli anni Sessanta: battaglia di Benevento, 1266, nuova cacciata dei ghibellini da Firenze l’anno seguente, battaglia di Tagliacozzo del 1268, nuova sconfitta ghibellina a Colle di Val d’Elsa nel 1269, incoronazione di Carlo d’Angiò nel 1270. In un capitolo precedente (il 4) ho esposto sommariamente queste vicende e la loro rievocazione nella Commedia.
In questo decennio di guerre si inseriscono alcuni capolavori artistici, ambedue di grande innovatività e ambedue realizzati nella ghibellina Siena. Nel 1265 furono avviati i lavori per il pulpito del Duomo di Siena sotto la direzione di Nicola Pisano, nella cui bottega lavorò anche il giovane Arnolfo di Cambio. Pochi anni dopo la battaglia di Montaperti un pittore fiorentino che era stato preso prigioniero dai Senesi, Coppo di Marcovaldo, riscattò la propria libertà eseguendo una grande tavola (oggi nella chiesa senese dei Servi) che raffigurava una Madonna nella cui aureola si vedono incise le aquile imperiali.
Mentre si svolgevano le guerre tra Comuni e schieramenti politici poche città si erano trovate lacerate al loro interno come Firenze, e poche sostennero il conflitto esterno con maggiore impegno ideologico ed economico. Nel 1252, cioè due anni dopo la costituzione del Popolo, il Comune di Firenze si diede ad una ardita sperimentazione economica, la coniazione della moneta d’oro, il fiorino di ventiquattro carati. Intesa essenzialmente ad emarginare la coniazione aurea che aveva promosso Federico II, l’iniziativa monetaria fiorentina fu un fattore di incerto significato nell’immediato per l’economia cittadina ma presto di enorme rilevanza propagandistica e anche nell’economia intercittadina e internazionale, e in prospettiva pegno di un successo che contribuì a candidare Firenze a capofila dello schieramento guelfo in Toscana, ruolo che la città mantenne anche dopo i rovesci guelfi dei primi anni Sessanta. Verso la fine del secolo il fiorino d’oro esprimeva il suo pieno valore economico, e il suo successo aveva anche indotto tentativi di falsificazione (Dante ricorda in Inf. XXX, vv. 89-90, come i conti di Romena avessero promosso la coniazione di un sedicente fiorino che conteneva ventuno carati d’oro invece di ventiquattro) e avrebbe suscitato infine l’imitazione, tardiva e saggia, dei Veneziani. Intanto a Firenze si era realizzato il nuovo sopravvento della Parte Guelfa e il suo dominio in città e in gran parte della Toscana. Nel quadro dell’alleanza guelfa si era conclusa una pacificazione tra Firenze e Siena, la quale ultima fu adesso libera di potersi espandere a sud, nella Maremma, dopo avere già eroso dalla metà del secolo il potere dei conti Aldobrandeschi attraverso vicende che Dante ricorda nel poema (Pg. XI, vv. 58-72).
Negli anni Settanta sia Siena sia Firenze sia altre città comunali, segnatamente Bologna, dovettero affrontare il problema del contenimento delle famiglie straricche e strapotenti, i “magnati”, eredi di un segmento della militia del secolo XII e della prima generazione del Duecento. Caratterizzava queste famiglie l’ingente patrimonio di terre e di case, il controllo su una clientela di servitori e di armati, l’ambizione nobiliare raggiunta con il titolo di cavaliere, l’uso delle armi e una attitudine di prevaricazione e violenza, infine l’adesione a una pratica di giustizia privata, la vendetta, che peraltro non era loro esclusiva, poiché l’idea che la punizione del colpevole spettasse alla parte lesa era idea di remota tradizione e di larga diffusione sociale. Sembrò contrario a un buon ordine civile il fatto che famiglie già di per sé potentissime e per giunta avvezze a pratiche violente cumulassero tale posizione con l’esercizio di poteri pubblici. Così l’antico conflitto tra milites e populares evolvette verso il conflitto tra i popolani e quelle famiglie strapotenti che furono variamente nominate magnates, casati, “grandi”.
Nei Comuni egemonizzati dal Popolo il conflitto si tradusse nella produzione di leggi che variamente intendevano contenere il potere dei magnati, o stabilendo penalità particolarmente severe nel caso che costoro recassero offese ai popolani, e magari imponendo una sorta di cauzione, a titolo preventivo (a Firenze il cosiddetto “sodamento”), oppure escludendoli da alcuni importanti uffici di governo. Queste cosiddette leggi antimagnatizie furono promosse prima che in Firenze in altre città comunali, segnatamente a Bologna fra i1 1271-1272 e più duramente nel 1282 e nel 1284, e a Siena nel 1277 e in statuizioni successive. In tutti questi casi accadde dunque, come vedremo accadere a Firenze, che si trattasse di provvedimenti elaborati in più tempi successivi, in genere con un crescendo di severità. E ovunque la problematica dei magnati si collegò con la problematica del conflitto ghibellino-guelfo e con la necessità di contenerlo pena la distruzione dell’ordine sociale interno.
Le dinamiche di elaborazione di queste leggi furono diverse nelle diverse città: a Siena vi fu una larga partecipazione dei magnati (casati) alle leggi contro di loro, in una volontà di ordine pubblico che sovrastava gli interessi familiari particolari; a Bologna l’esito fu invece quello dell’identificazione di ciascuna pars con un clan familiare. A Firenze la legislazione antimagnatizia fu preceduta da un grande tentativo di pacificazione interna, nel 1280 (dello stesso anno è la pacificazione tra ghibellini e guelfi a Colle di Val d’Elsa), e le prime norme limitatrici della potenza dei magnati vennero sancite l’anno seguente. Ma in prosieguo di tempo le autorità fiorentine avrebbero proceduto con maggiore durezza, i provvedimenti avrebbero acquistato sempre più una funzione di discriminazione politica, quando le famiglie al potere assegnavano periodicamente la qualifica di “grandi” a quanti volevano escludere dal governo. Questo significa anche che non è corretto inferire dalla qualifica di “grandi” o “magnati” la situazione sociale di famiglie e persone. Inoltre il virulentarsi della lotta politica condusse a un nuovo esempio di “bipolarismo”, con la divisione interna al guelfismo, tra guelfi “bianchi” e guelfi “neri”.
Questi furono però sviluppi di fine secolo. Nel frattempo, negli anni Ottanta, nuovi scenari si erano aperti in Italia e a Firenze. Il 1282 vide in Firenze una importante innovazione istituzionale, con l’attribuzione ai priori delle Arti di un ruolo di governo, cioè un organo intermedio tra il vertice (il podestà) e il Consiglio, secondo una logica che anche altre città e cittadine seguirono fra Due e Trecento. L’ufficio era di breve durata, due mesi, e la frequente rotazione consentiva una larga partecipazione dei membri delle Arti. Dante non fu vittima dell’esclusione magnatizia, perché era stata fatta una eccezione all’esclusione per quanti si iscrivessero a un’arte, ciò che il poeta fece, entrando nell’Arte dei medici e speziali, e fece parte del collegio dei priori nel 1300.
Quello stesso anno 1282 che aveva veduto l’istituzione del priorato vide la rivolta siciliana del Vespro, duro colpo alla potenza angioina (ne ho parlato nel Capitolo 8), la quale peraltro era vista anche nella guelfa Firenze come un poco ingombrante. Nell’agosto del 1284 la battaglia navale della Meloria colpì duramente Pisa, seconda città toscana per importanza e sostenitrice da sempre dell’autorità imperiale. Non colpì i suoi grandi artisti, quale Giovanni Pisano, figlio di Nicola, autore delle meravigliose sculture nel Duomo di Siena e, nella seconda decade del Trecento, del monumento sepolcrale per la moglie dell’imperatore Enrico VII del quale diremo, un’opera di inesprimile bellezza. La sconfitta della Meloria aperse in Pisa lo spazio a un tentativo di ripresa antiguelfa, poi attraverso vicende nelle quali si inserì il nobile e potentissimo conte Ugolino, signore di territori in Sardegna e di castelli in Versilia e in altri luoghi del territorio pisano, si riaffermò nel 1288 con il sostegno di grandi famiglie ghibelline un regime ostile allo schieramento guelfo (la vicenda è rievocata in uno dei più celebri e drammatici canti della Commedia: Inf. XXXII-XXXIII). La parte ghibellina in Toscana aveva così riacquistato uno dei suoi punti forti, al quale si aggiunse il Comune di Arezzo, che venne guerreggiata dai Fiorentini nel 1289 e sconfitta in un luogo detto Campaldino: battaglia alla quale partecipò il giovane Dante, come egli avrebbe poi ricordato in Pg. V.
Firenze entrava così con forza nell’ultimo decennio del Duecento, che per Dante si era aperto nel segno del dolore per la morte di Beatrice (1290). Era entrato nell’orbita fiorentina e guelfa il grandissimo Arnolfo di Cambio, non certo per scelta politica (gli artisti, tutti, lavoravano in funzione di una committenza, ghibellina o guelfa che fosse, e la committenza di Arnolfo era soprattutto fiorentina, angioina e papale). In questo clima di gloria il Comune di Firenze affrontò una delle sue crisi più severe. Si trattò dell’inasprimento dei provvedimenti contro i magnati, ispirato dal nobile Giano della Bella e realizzato nei cosiddetti Ordinamenti di Giustizia del 1293. Giano sarebbe stato combattuto e costretto all’esilio nel 1295, ma l’istituto del Gonfaloniere di Giustizia e gli Ordinamenti sarebbero rimasti a lungo elemento importante della costituzione fiorentina. Dante ricorda questo importante momento della storia di Firenze in maniera incidentale, allusiva e un poco ambigua nel canto XVI del Paradiso, ancora una volta attraverso le parole del trisavolo Cacciaguida. La qualità nobiliare di Giano, il quale non è nominato esplicitamente, sarebbe risalita insieme a quella di altre famiglie al “gran barone” Ugo, marchese di Toscana nel secolo X. Dante sapeva che la nobiltà poteva avere una derivazione di sangue oppure nascere dalla concessione di una autorità politica, o ancora seguire entrambe le vie. Sapeva anche che poteva accadere, ed era accaduto nel 1293, che un nobile aderisse alla causa popolare: cosa sulla quale non insiste, accennandovi come cosa di fatto, come non dà notizia della caduta in disgrazia di Giano e del suo esilio, avvenimenti dai quali erano trascorsi cinque anni al momento (1300) nel quale Cacciaguida viene fatto parlare nel poema. Per lo storico di oggi in realtà l’ affaire di Giano della Bella è un esempio, tra i più notevoli, di quella dissimmetria fra situazione sociale e intervento politico della quale ho parlato poco sopra.
Altro fenomeno del quale ho parlato è l’incoercibile tendenza al bipolarismo, con gli schieramenti dei Bianchi e dei Neri. Ne ho dato un cenno, con riferimento all’incidenza di questi sviluppi nella vita di Dante, nel Capitolo 4. Quanto al tema dell’aristocrazia o nobiltà che dir si voglia (non ci estenueremo in sforzi definitori!) in Dante e nel suo tempo, vi dedicherò un capitolo apposito, dove cercherò di contemperare le concezioni di Dante con un chiarimento faktual, non idealistico, sulla questione.
Nota. Vale ovviamente anche per quest’epoca il riferimento al grande Robert Davidsohn, Geschichte von Florenz, citato nel precedente capitolo. A ciascuna delle grandi battaglie del secondo Duecento è stata dedicata una monografia. Tra le più recenti quella di Federico Canaccini sulla battaglia di Tagliacozzo che ho citato nel Capitolo 6. Per la collocazione di Dante nell’aristocrazia, ma anche per le leggi antimagnatizie, la questione della vendetta e il tentativo di contenerla operato dal Comune e tutta la vicenda politica del secondo Duecento si vedrà, anche per la copiosa bibliografia, Enrico Faini, Ruolo sociale e memoria degli Alighieri prima di Dante, in Dante attraverso i documenti. I. Famiglia e patrimonio (secolo XII-1300 circa), a cura di Giuliano Milani e Antonio Montefusco = Reti Medievali Rivista, 15, 2 (2014) http://rivista.retimedievali.it, pp. 1-40. L’Autore ha anche ben spiegato (pp. 24-26) come all’interno di una dinastia potessero venire seguite diverse strade, una più aderente al Popolo e una più ancorata a pratiche e ideologie nobiliari. Si vedrà anche La Legislazione antimagnatizia a Firenze, ed. Silvia Diacciati e Andrea Zorzi, Roma, 2013 (Istituto storico italiano per il medio evo, Fonti per la storia dell’Italia medievale).
Autore: Paolo Cammarosano
Immagine di copertina tratta dalla Bibbia Morgan (Salterio Maciejowski)