Quando Dante nacque la Toscana aveva alle spalle oltre un secolo di conflitti militari per il potere politico nella regione. Quello che chiamiamo il potere politico, cioè l’autorità sulla giustizia, sulla finanza e sulla forza militare, era esercitato dalla fine del secolo XI, cioè dalla generazione di Cacciaguida, il trisavolo di Dante, da molte decine tra Comuni cittadini e dominazioni signorili aristocratiche ed ecclesiastiche o monastiche imperniate sui castelli. E dalla metà di quello stesso secolo XI tutta la regione era stata investita dall’intervento di due alte e antiche istanze di potere, l’Impero e la Chiesa di Roma, e da ricorrenti, quasi endemici, contrasti fra le due.
Tutto ciò implicava che ogni Comune, ogni autorità religiosa, ogni famiglia o dinastia, cercasse alleanze, o accordi di non belligeranza, con qualcuna delle altre tessere di quel fitto mosaico e che si creassero e si disfacessero convenzioni, patti, leghe. Così, le generazioni nate alla fine del secolo XI non avrebbero mai conosciuto anni senza guerra, tranne poche brevi parentesi.
Della “preistoria” delle guerre di Toscana, cioè di quelle che si erano svolte prima del Duecento, Dante non recepì quasi alcuna memoria. È del tutto vago, e ha posto problemi ai commentatori, l’accenno a Semifonte in Par. XVI, vv. 61-63: “Tal fatto è fiorentino e cambia e merca, / che si sarebbe vòlto a Simifonti, / là dove andava l’avolo a la cerca”. Semifonte era un castello della Val d’Elsa, già signoreggiato dai conti Alberti, che nel secolo XII si era costituito in Comune, aveva organizzato un suo piccolo dominio territoriale, insomma aveva aspirato a una dimensione cittadina ed era stato perciò distrutto dai Fiorentini nel 1202, previo un accordo con il Comune di Siena al quale venne lasciata in cambio la facoltà di impadronirsi di Montalcino, altro castello e Comune che aspirava all’autonomia.
Se Dante non ricorda, e probabilmente ignorava, le circostanze e il contesto della guerra di Semifonte, quel suo accenno è però importante per il contesto sociale nel quale Dante lo iscrive e per il suo pensiero politico. Per molti contemporanei di Dante Semifonte era immaginato come proprio luogo di origine da alcune famiglie importanti (una piccola Ilio/Troia, insomma, nella cui tragedia e distruzione era possibile rinvenire fantasiose ed illustri radici familiari). Ma non è questo il motivo dell’attenzione del poeta. Semifonte è invece per Dante simbolo di una antica vita sociale umile, ancorata alla campagna (comunque si voglia intendere l’andare “a la cerca” del v. 63), contrapposta all’attività finanziaria e mercantile dei cittadini di Firenze nuovi venuti (“tal fatto è fiorentino e cambia e merca”, v. 61). Inoltre: questo ampliamento della popolazione cittadina dovuto all’inurbamento di persone del contado, fenomeno già denunziato da Cacciaguida come ho ricordato a suo luogo, era correlato all’espansione urbana e territoriale di Firenze, egualmente deplorata da Cacciaguida. Egli avrebbe preferito una città con territorio limitato al Galluzzo e a Trespiano, cioè a pochi chilometri dal Duomo. Inoltre denunziava come un dato pesante e non positivo dell’espansionismo del Comune di Firenze l’estromissione dal dominio di castelli e borghi del contado di nobili famiglie, alcune delle quali si erano inurbate e altre no, tutte comunque oramai prive delle loro signorie locali: così i conti Guidi, i Cerchi, i Buondelmonti. Questa visione rétro era integrata e come solennizzata dall’accusa mossa alla Chiesa di Roma (“la gente ch’al mondo più traligna”), che aveva ostacolato e combattuto il potere imperiale (era stata “a Cesare noverca”, matrigna e non madre)(vv. 58-59), il quale, dobbiamo chiosare, avrebbe mantenuto un buon ordine politico comprimendo le ambizioni espansionistiche delle città potenti.
Nel suo implacato conservatorismo, questa visione delle cose non è però del tutto anacronistica e fantasiosa. Gli imperatori tedeschi si erano sempre posti quali sostenitori di una pace che era minacciata dalla volontà di espansione delle città. Era stata la sostanza dell’intervento di Federico Barbarossa contro Milano negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo XII, sarebbe stata la motivazione ideologica dei suoi successori, fino a Federico II ed Enrico VII: imperatori forieri di giustizia e di pace di fronte a città prepotenti e guerriere. E così l’inimicizia della Chiesa di Roma verso l’Impero era considerata da Dante cagione di ingiustizia e di guerra.
Questa inimicizia tra Chiesa ed Impero conobbe un crescendo nelle generazioni successive a Cacciaguida, quelle di Bellincione e di Alighiero II, cioè dagli anni Venti e Trenta del Duecento. In questo periodo lo sviluppo demografico e la crescita economica delle città toscane avevano raggiunto un loro culmine e stava per iniziare una fase di rallentamento, con un consolidamento delle rispettive situazioni. Verso il 1230 Firenze aveva certamente superato per entità demografica sia Pisa sia Siena, le altre due maggiori città di Toscana. Se dal confronto quantitativo ci portiamo sul terreno delle strutture sociali e istituzionali dei Comuni cittadini prendiamo atto di alcune somiglianze sostanziali. I governi comunali erano organizzati inizialmente (fine secolo XI-inizi secolo XII) in un vertice collegiale, il consolato, e un Consiglio. Variavano di anno in anno sia il numero dei consoli sia la composizione del Consiglio. Predominavano in ambedue le strutture di governo le famiglie di più antica origine, di maggiore agiatezza e di attitudine alle armi e all’esercizio della giustizia: è quella che gli storici chiamano “aristocrazia consolare”. Vi era una grande informalità in tale meccanismo di governo: allo stesso modo che fino a tutto il secolo X la nomina dei vescovi spettava, oltre che al clero della cattedrale, ad una molto ristretta aristocrazia di fatto, così era una aristocrazia di fatto che dal secolo XI in avanti, privata del ruolo nella nomina dei vescovi in seguito al successo del movimento di riforma della Chiesa guidato dalla Sede Apostolica, dominava la scena politica cittadina.
Ma due qualificazioni importanti devono essere sottolineate. Il ceto aristocratico cittadino non era più costituito, tra XI e XII secolo, da un pugno ristretto di famiglie, bensì da alcune decine. Inoltre questa epoca vedeva ancora una forte mobilità sociale, nei due sensi. Una testimonianza importante è offerta ancora dalle parole di Cacciaguida in Pg. XVI: il trisavolo di Dante dice di aver visto ai suoi giorni (i quali si collocano, ricordiamo, tra il 1090 circa e gli anni Quaranta del secolo XII) sei famiglie importanti già in decadenza. Poi nomina altre dinastie che al suo tempo erano di antica origine e potenti, infine sciorina in maniera molto casuale una ventina di nomi di famiglie che già al suo tempo avevano uffici o erano comunque eminenti. La memoria di Cacciaguida è fortemente selettiva: le famiglie di una certa agiatezza e influenza politica in Firenze erano ben più numerose di quante egli, e ovviamente Dante che lo fa parlare, non ricordi. Tuttavia la percezione di una mobilità sociale verso l’alto, con un trend di antico inizio ma continuo fino alla prima metà del Duecento, con alcune cesure, una delle quali si colloca alla metà del secolo XII, che non inficiarono però il generale andamento in crescendo, è confortata dalle ricerche documentarie. Più difficile e ancora non bene identificata è la fase di rallentamento e arresto della mobilità in ascesa. Ma con buona sicurezza la possiamo collocare nel periodo di vita di Dante, e anche qui le evidenze documentarie e il suggerimento della poesia concordano nell’indicare l’assenza di nuove accessioni all’aristocrazia, con minime eccezioni, nella seconda metà del Duecento. Preciseremo qualcosa a suo tempo nel capitolo sulla cronologia dei personaggi menzionati nella Commedia.
L’incremento della popolazione cittadina e l’afflusso di persone estranee all’aristocrazia, anzitutto artigiani, poi la gente che “cambia e merca”, per ripetere le parole di Cacciaguida, l’affermazione di segmenti dell’intellettualità e soprattutto di un ceto professionale come quello dei notai, decisivo nell’amministrazione della vita pubblica e delle vite private, tutto ciò rendeva impossibile una gestione della cosa pubblica comandata esclusivamente dall’aristocrazia consolare, cioè una struttura dove si identificavano preminenza sociale e comando politico. Così tra la fine del secolo XII e gli inizi del Duecento due mutamenti importanti si realizzarono nelle strutture comunali, sia in Firenze che in altre città e cittadine. Al vertice del governo il collegio consolare fu sostituito da una magistratura unica, il podestà, inizialmente un membro della cittadinanza, poi quasi sempre ed ovunque un forestiero, e si creò la diarchia tra il podestà, sempre un nobile e con termine breve dell’ufficio, e il Consiglio. L’altra evoluzione importante fu l’organizzarsi dei cittadini non aristocratici, definiti nel loro insieme populares in contrapposizione agli aristocratici, i milites, in forme confraternali o corporative (le Arti). Verso la metà del Duecento (a Firenze tra il 1244 e il 1250) si venne compiendo la costituzione di un organismo che si autodefinì “Popolo”, estraneo al momento agli schieramenti ghibellino e guelfo e rappresentativo di tutti coloro che, non avendo origini aristocratiche, nondimeno rivendicavano la partecipazione al governo della cosa pubblica.
L’evoluzione che ho molto sommariamente descritto era in pieno svolgimento quando si accesero con nuovo vigore i conflitti di Toscana. Si andarono adesso consolidando alcuni schieramenti, alleanze e posizioni antagoniste di città. Nel 1208 fu la guerra vittoriosa di Firenze contro Siena. Circa una settimana dopo i Senesi costruivano il Castello di Monteriggioni (che sarà nominato da Dante in Inf. XXXI), a fronteggiare il territorio fiorentino su quello che era oramai un confine di guerra. Nel 1220 entrava in Roma Federico II di Svevia per ottenere la corona imperiale e sancire un patto di concordia con la Chiesa di Roma. Ambasciatori di ogni città vennero ad omaggiarlo, ma negli accampamenti presso Roma vi fu una zuffa tra Fiorentini e Pisani. Pisa era al momento la nemica principale della città di Dante, e una nuova guerra e una nuova vittoria fiorentina si ebbe nel 1222 a Castel del Bosco. Fu poi la volta di una nuova e lunga guerra tra Firenze e Siena, conclusa nel 1235 nel castello di Poggibonsi, che era una delle comunità di tipo cittadino cresciute nella Val d’Elsa in questo primo Duecento.
Mentre si svolgevano queste vicende militari in Toscana si ruppe, in successivi momenti, con una alternanza di crisi, riappacificazioni e nuove crisi, la concordia tra l’imperatore e il Papato, questo rappresentato adesso da Gregorio IX (1227-1241). La “briga”, come Dante ebbe a chiamarla (Pg. XVI, v. 117), giunse al punto di non ritorno nel 1239, con la scomunica fulminata dal papa contro Federico II. Fu adesso che si consolidò in tutta Italia la formazione di una pars di sostenitori dell’imperatore, che si dissero Ghibellini, e una pars che sostenne i papi, prima Gregorio IX e poi Innocenzo IV (1243-1254), e si disse dei Guelfi.
Ho cercato di spiegare in capitoli precedenti (l’8 e il 9, imperniati rispettivamente sulle figure di Farinata degli Uberti, Inf. VI e X, e di Sapia, Pg. XIII), come il conflitto ghibellino-guelfo attraversasse famiglie e città, con la formazione di adesioni e schieramenti interni a ciascuna famiglia e a ciascuna città, divise le une e le altre in fazioni, partes,politicamente connotate. Ma è molto importante chiarire e sottolineare come le lotte intracittadine e il formarsi di schieramenti contrapposti siano state un fenomeno precedente di almeno una generazione al contrasto tra Ghibellini e Guelfi, il quale contrasto non creò, bensì cristallizzò antichi conflitti e fece assumere loro il carattere della bipolarità. Tale carattere di bipolarità era già insito nelle contrapposizioni sociali dell’età romanica (maiores e minores), segnerà a lungo le idee e la mentalità della società urbana nel medioevo maturo e tardo (milites e pedites, nobili e popolari), riemergerà poi in contesti del tutto nuovi nelle età moderna e contemporanea.
Una tradizione fiorentina, riportata in molte narrazioni cronistiche e recepita anche da Dante (Inf. XXVIII e Par. XVI), fece risalire la divisione tra Ghibellini e Guelfi a una faida familiare creatasi nel 1216. Un nobile giovane fiorentino, Buondelmonte dei Buondelmonti, aveva contratto una promessa di matrimonio (quello che noi chiamiamo il fidanzamento e al tempo di Dante si dicevano “sponsali”, cosa che oggi non ha valore istituzionale ma nel medioevo era un impegno sancito contrattualmente e con giuramento e imprescindibile precedente del matrimonio) con la figlia di un altro nobile, Oderigo Giantruffetti. Una nobildonna del casato dei Donati propose a Buondelmonte di sposare una delle sue figlie, e si impegnò a rifondere il giovane della penalità cui sarebbe incorso per la rottura degli sponsali. Buondelmonte tirò dritto verso la nuova fidanzata e mal glie ne incolse. Amici e parenti di messer Oderigo vollero vendicarsi. Qualcuno del clan si sarebbe accontentato di infliggere al giovane fedifrago una bastonata e così disonorarlo, ma un personaggio, che nel tempo sarebbe stato identificato con un Mosca dei Lamberti, disse che tanto valeva uccidere il giovane, perché le ferite avrebbero suscitato comunque odio, e pronunziò la frase divenuta proverbiale: “cosa fatta capo ha” (“capo”, latino caput, volgare co, con gli accrescitivi “caput optimum”, donde “cottimo”) designava una qualunque cosa portata a compimento.
Nella Commedia sarebbe stato rievocato l’episodio, e segnatamente la famosa frase del Lamberti, che Dante colloca in inferno tra i promotori di discordia (Inf. XXVIII), accogliendo anche l’idea che quel fatto sarebbe stato all’origine delle sciagure toscane, nonché dell’infausto esito del clan dei Lamberti: i quali in effetti tra il 1258 e il 1268 sarebbero stati perseguiti come ghibellini ed esiliati. Ma noi dobbiamo ancora una volta dare contestualizzazione e chiarezza storica e umanizzare.
Lo stesso autore della narrazione che ho ripreso qui, Dino Compagni, amico di Dante e suo collega in alcuni momenti di governo e personaggio sul quale dovremo tornare, dice chiaramente come la cittadinanza fiorentina fosse già divisa da gran tempo. Nell’ultimo quarto del secolo XII l’antica consorteria dei Giandonati si contrapponeva ad altre famiglie nobiliari, come i Giudi e i Fifanti che saranno nominati da Cacciaguida in Pg. XVI. Il trisavolo di Dante non sapeva molto di questi remoti conflitti, e molto poco ne sappiamo noi. Quello che comunque è sicuro è che si trattò di conflitti interni all’aristocrazia, di conflitti tra clan familiari, e che l’episodio del Buondelmonti e della guerra che ne seguì nella seconda generazione del Duecento precedette di una ventina di anni il contrasto tra Ghibellini e Guelfi. Quello che però riterremo della narrativa di Dino Compagni, e quello su cui non c’è da dubitare, è il fatto dello scontro politico cittadino come scontro tra famiglie e dunque come fatto antropologico, di lunga durata. Ed è una antropologia dell’odio e della violenza, innestata sulla natura violenta delle persone, ciò di cui Dante stesso è testimone ed esempio. Le undici terzine dell’Inferno (VIII, vv. 31-63) che dicono dello strazio di un membro della consorteria degli Adimari e del godimento di Dante al vederlo reiteratamente soffrire sono stupendo esempio dell’odio, un odio che Dante estende in un altro poderoso luogo (Par. XVI, vv. 115-118) a tutta l’“oltracotata schiatta” di quel peccatore. I commentatori, dai primi commentatori ai moderni, hanno cercato una motivazione specifica a tanto odio, ma a noi questo non importa molto, mentre è importante riconoscere tutto il momento passionale dei conflitti tra i clan familiari, una passione che da un lato rende ragione dell’implacabilità dei conflitti e dall’altro pone difficoltà, come ogni fatto antropologico, ad ogni analisi storica e dunque circostanziata nel tempo.
Andrebbe aperto qui un altro, e non meno importante, discorso. Nel chiosare luoghi della Commedia nei quali è espresso un giudizio duro sulle persone e ne è sanzionata la condanna ultraterrena, anche se in forme meno violente rispetto al trattamento riservato da Dante agli Adimari, vi è stata sovente una tendenza ad accettare per buoni i giudizi del poeta, e questo anche quando, come avviene in molti casi, egli è unus testis. Lungi da me la volontà di sostenere che gli Adimari erano in fondo brava gente, è più che verosimile che condividessero un’attitudine di prepotenza con molte altre consorterie fiorentine. Ma un minimo di cautela nel sostenere, come talora è accaduto, la serenità e l’imparzialità di giudizio di Dante non può far male.
Nota. Per le vicende politiche di Firenze nell’età comunale è fondamentale Robert Davidsohn, Geschichte von Florenz, 4 voll. (in 7 tomi), Berlin, 1896-1927; ed.it.: Storia di Firenze, 8 tomi, Firenze, Sansoni, 1972-1973 (Superbiblioteca Sansoni). Per un primo e veloce approccio è eccellente Lorenzo Tanzini, Firenze, Spoleto, Fondazione Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 2016 (Il medioevo nelle città italiane. Collana diretta da Paolo Cammarosano, 9). Una preziosa, accuratissima disamina della vicenda del giovane Buondelmonte e della lunga tradizione storiografica che narrò l’episodio con numerose variazioni (tra cui sul nome e la famiglia della mancata sposa di Buondelmonte), nonché dei conflitti tra le famiglie fiorentine nel lungo periodo e nella loro dinamica, è stata offerta da Enrico Faini, Il convito del 1216. La vendetta all’origine del fazionalismo fiorentino, in “Annali di storia di Firenze”, I, 2006, pp. 9-36.
Autore: Paolo Cammarosano
Nell’immagine di copertina: Monteriggioni, foto di Luca Betti da www.monteriggioniturismo.it/it/